Licinio Refice (1883-1954): “Cecilia” (1934)

Azione sacra in tre episodi e quattro quadri su testo di Emidio Mucci. Denia Mazzola Gavazzeni (Cecilia), Giuseppe Veneziano (Valeriano), Corrado Cappitta (Tiburzio), Fabrizio Mercurio (Amachio), Riccardo Ristori (Il Vescovo Urbano), Serena Pasquini (L’angelo di Dio), Kulli Tomingas (La vecchia cieca). Orchestra Filarmonica italiana, La Camerata di Cremona. Marco Fracassi (Direttore). Registrazione 22 novembre 2013. 3 CD GB2472
Aveva ragione Toscanini, Refice sarebbe stato il più grande operista del suo tempo non fosse stato per “quella tonaca” e basta ascoltare la sua musica per rendersi conto che questo prete ciociaro amante di Wagner e di Debussy aveva la stoffa del grande operista e che il teatro sarebbe stato il suo ambiente naturale ben più che il rinnovamento della musica sacra dove per altro il suo bisogno espressivo e la sua apertura alle avanguardie musicali del tempo gli crearono non pochi problemi.
Nato nel 1883 a Patriaca in provincia di Frosinone, allievo del Conservatorio cittadino e poi al Regio Liceo di Santa Cecilia a Roma Refice affiancò sempre studi musicali e teologici, sacerdozio religioso e artistico emergendo fin da giovane come una delle personalità più dotate della sua generazione tanto che nel 1910 otteneva neppure trentenne la direzione della Cappella Liberiana di Santa Maria Maggiore, il terzo pilastro di quel progetto di rifondazione della musica sacra portato avanti da Pio X e che già si incarnava nelle presenze di Perosi alla Sistina e Casimiri alla Lateranense.
Fin dai primi oratori latini – la “Chananaea” del 1910 e “La vedova di Naim” del 1912 – Refice mostrò la naturale propensione teatrale e l’idea di una fede militante e forte, più drammatica che ascetica chiamata ad esprimersi in un linguaggio musicale molto ricco in cui la riscoperta del canto gregoriano e delle tradizioni medioevali – aprendo una strada che avrà in Pizzetti il più illustre interprete – si univa con la conoscenza e l’amore per le sperimentazioni modali di Debussy e per i cromatismi di derivazione wagneriana – e Wagner fu sempre il grande, mai negato amore di Refice. Una ricchezza e un’apertura culturale che crearono a Refice più di un problema, il “Cantate Domino canticum novum” del 1912 fu infatti accolto con scandalo dai tradizionalisti proprio per l’abbandono cromatico tristaniano che permeava la partitura e lo scandalo costò a Refice l’incarico come insegnante presso la Scuola di Musica Sacra.
Il 1922 rappresenta un momento essenziale nella vita del compositore, in quell’anno Emidio Mucci gli propone il libretto per un’opera ispirata a Santa Cecilia che doveva rappresentare un modello di rinnovamento delle rappresentazioni sacre rimodellate sull’opera lirica contemporanea così da coinvolgere il pubblico in modo più vivo e profondo. Dopo varie vicissitudini l’opera andò in scena al Teatro dell’Opera di Roma nel 1934 con protagonista d’eccezione Claudia Muzio e la direzione di Edoardo Vitale sostituito nelle riprese del 1935 dallo stesso Refice che aveva ottenuto una dispensa al riguardo dalla curia. “Cecilia” rappresenterà il titolo di maggior successo di Refice, quello più legato alla sua vita fino alla scomparsa nel 1954 durante le prove per una ripresa dell’opera a Rio de Janeiro con protagonista Renata Tebaldi; anche se fu la successiva “Margherita da Cortona” del 1938 ad aprirgli le porte della Scala.
Cosa rivela oggi l’ascolto di “Cecilia”? La sensazione di trovarsi di fronte ad un’opera musicalmente di qualità molto alta, di una ricchezza nelle parti orchestrali rara per un compositore italiano, di una maestria assoluta nell’uso del coro, di una vocalità forse povera di autentico senso melodico ma retta da un declamato nobile e molto espressivo ma al contempo di un lavoro privo di vita e non solo per lo sgangherato libretto di Mucci imbevuto di un decadentismo di seconda mano e farcito di orrori storici che non possono che strappare un involontario sorriso (Valeriano vincitore dei cartaginesi nel III d.C.!) ma soprattutto limitata dal suo stesso rigore ideologico. L’agiografia non è per sua natura teatrale, i personaggi risultano troppo lineari, troppo meccanici, la conversione di Valeriano è così repentina e assoluta da togliere qualunque tormento umano di fronte ad una scelta così radicale; Cecilia fin dall’inizio votata al martirio non riesce a coinvolgere sul piano emotivo, alla fine il più vero, il più umano risulta il persecutore Amachio, l’unico ad avere qualche contrastata reazione di fronte alla vicenda. Quanto aveva ragione Toscanini su quella tonaca.
Il problema di allestire quest’opera è che richiede artisti tali da far emergere gli indubbi meriti della partitura e di cercare di coprirne le mende. Questa registrazione eseguita nel 2013 a Cremona vi riesce solo in parte. L’Orchestra Filarmonica Italiana e il coro La Camerata di Cremona diretti da Marco Fracassi si impegnano con serietà e riescono a superare le non poche difficoltà poste dalla partitura portandone a casa una lettura più che attendibile. La compagnia di canto è però in gran parte deficitaria.
Protagonista assoluta dell’opera Cecilia è qui interpretata da Denia Mazzola Gavazzeni che ha il merito di credere molto in quanto fa e di impegnarsi con tutte le proprie energie. La Mazzola è un’interprete intelligente e un’artista di forte temperamento, sa cantare e rendere sempre espressiva la parola e al contempo ha una formazione belcantista che le evita di cadere in certi eccessi espressivi cui il ruolo potrebbe invitare. La voce non è sempre fermissima e forse, in questo momento della sua carriera artistica, manca di quella luminosità, di quella bellezza timbrica soggiogante che la scena del martirio sembra naturalmente richiedere e che era della Muzio creatrice del ruolo (e poi della Tebaldi espressamente scelta da Refice per la parte) ma riesce comunque a costruire un personaggio degno di interesse.
Il problema è che intorno alla Mazzola vi ben poco. Giuseppe Veneziano è un Valeriano timbricamente piacevole, a suo agio nei momenti più lirici come il bel duetto con Cecilia che chiude il II atto ma manca di quella capacità di scolpire la frase, di dominare i declamati di forma che la scena delle catacombe impone. Pessimo l’Amachio ingolato e vociferante di Fabrizio Mercurio capace di affossare con i suoi sgraziati interventi la scena del processo che dovrebbe essere il punto di maggior tensione drammatica. Non brillano nemmeno il Tiburzio di Giuseppe Cappitta e il vescovo Urbano di Riccardo Ristori che appare ben poco autorevole. Decisamente meglio la parte femminile con il luminoso Angelo di Dio di Serena Pasquini cui è affidato il prologo e la bella voce contraltile di Kulli Tomingas nei panni della vecchia cieca.