Maria Callas. Un trattato di canto (terza parte)

A quarant’anni dalla morte della grande cantante.
Il registro grave
È quel registro che, come affermava Lilli Lehmann, “è il prodotto di una rappresentazione soggettiva della risonanza dei suoni”, copre, per ciò che riguarda i soprani, le note comprese fra il la sotto il rigo e il fa sul primo spazio, arrivando talvolta al sol sotto il rigo per i contralti. La Callas fa un accorto uso del registro grave, usando sia le risonanze “di petto”, quando il canto è di natura drammatica o furiosa,  quelle di tipo “misto”, ossia petto-testa, nelle note gravi di natura, diciamo “classica”.

Nel Macbeth, rifacendosi alle idee estetiche di Verdi, che esigeva per il ruolo di Lady una cantante dalla voce “brutta”, la Callas adopera un colore di voce rauco, cavernoso; se invece la ascoltiamo in un ruolo seducente come quello di Dalila, la cantante usa un colore di voce scuro, ma pieno e rotondo. Abbiamo già parlato della cavatina del “Barbiere di Siviglia”, possiamo ancora fare notare come la Callas esegue il disegno originale di coloratura grave-acuto, così come fu indicato dal compositore, dunque con massima fedeltà al testo e in tal senso la cantante non sovraccarica mai di variazioni che penalizzino il testo non rifacendosi a quel tipo di pratica di tradizione che fino agli ’50 vedeva Rosina interpretato da soprani leggeri. La Callas nel duetto con Figaro può benissimo attenersi al testo originale seguendo le variazioni finali sia nel registro grave che in quello acuto, cosa mai avvenuta prima di lei. Parleremo anche di rivoluzione della pratica teatrale, anche se lei più volte affermava che si limitava “a cantare così come è scritto, nulla di più”. Ancora oggi si parla però della rivoluzione Callas, per il semplice fatto che la cantante, avendo comunque eccezionali mezzi vocali naturali, si era preoccupata di andare oltre il testo, questo veniva seguito ma trasceso secondo il suo particolare modo di sentire. Nessuna rivoluzione, semmai una vera e propria illuminazione per quanto riguarda l’uso musicale della parola. Se proprio vogliamo usare la parola rivoluzione, la possiamo collegare al momento in cui appare la Callas in Italia. Un dopoguerra che, sul piano musicale in qualche modo viveva un vuoto interpretativo, chiuso tra Verdi, Puccini e Verismo. La Callas fu la prima cantante dall’ambigua nazionalità, mediterranea di origine, che entrava con viva forza nei teatri italiani dopo il ventennio fascista, che portava con sé un tipo di cultura vocale che, in fondo, era quasi nuova, persino negli Stati dove si era comunque visto il caso di Rosa Ponselle, che potremmo definire una Callas del suo tempo.
Messa di voce
Si tratta forse del più difficile artificio vocale, già indicato dai primi trattatisti.  Secondo Francesco Lamperti consiste nell’attaccare un suono in pianissimo, rinforzandolo poi fino alla piena sonorità possibile e infine diminuendolo gradatamente fino al pianissimo, mantenendo la stessa qualità di suono in tutte le graduazioni. Un perfetto esempio di messa di voce è offerto dalla Callas nel passo estratto dalla Gioconda.

Suoni filati – Mezzevoci
Tecnicamente il procedimento dei suoni filati coincide con la messa di voce. Il suono filato indica il prolungamento di una serie di suoni emessi sempre a mezzavoce o in pianissimo senza però crescerli o diminuirli. Nell'”Ave Maria” dell’ Otello, sulla parola “Amen” la cantante dimostra come si possa esguire nel migliore dei modi un arpeggio a mezzavoce, anche quando questo non sia un vero e proprio di natura, bensì una conquista dell’intelligenza interpretativa della Callas, ancor più evidente se considerato il periodo in cui fu realizzata l’incisione quando l’organo vocale della cantante era pressochè compromesso.

La cadenza
In termini tecnici, consiste in una manifestazione di virtuosismo affidata al solista mentre tutte le altri parti strumentali tacciono. Nel XVIII° sec.  la cadenza divenne il banco di prova per i solisti di canto. I compositori stessi lasciavano all’inventiva del cantante la sua creazione; questi però instaurarono il noto costume di creare interminabili cadenze che alla fine interrompevano la line estetica dell’aria, così come succedeva nei “da capo” delle arie. Nell’800′ Brahms lasciò la cadenza del suo concerto in re minore all’inventiva del solista, per quanto l’amico Joachim, provvide a comporne una che viene eseguita ancora oggi. Con il canto romantico e fino al primo Verdi, la cadenza restò in uso nella pratica vocale, per poi scomparire via via che l’opera italiana prendeva a seguire altre vie. La Callas riesce a rendere interessante la cadenza di un’aria essenziale nel contesto globale dell’esecuzione. I suoi trilli, vocalizzi, roulade, hanno quasi sempre un senso, una necessità di essere, inesprimibile a parole. Ascoltiamola nella cadenza di “Ah, non creadea mirarti”. Qui la cantante fa ricorso a un tipo di canto statico, privo quasi di risonaze, un mezzo illuminante per esprimere un inconsapevole stato di follia.

Uso delle consonanti e vocali per particolari fini espressivi
La Callas fu maestra di onomatopea, anticipando i più arditi effetti della musica vocale contemporanea. Se per richiamare attraverso un suono, una certa consonante, un’inflessione rauca o stridente e pur sempre musicale, l’idea della natura o di uno stato d’animo. Nel “Gianni Schicchi” lo slancio su “Ma per buttarmi in Arno” detto con finta espressione infantile esprime il cadere del corpo che si getta nel fiume, con incredibile dinamica (importante l’accentuazione sul “t” ) o anche l’accentuare, “O Dio” sul finire dell’aria.
“Il non osi entrar” di Lady Macbeth rende in modo impressionante la sfida della regina, ormai pazza, all’ucciso; nella Medea il “re degli dei” eseguito facendo leva sulla forza espressiva delle consonante “r”, illustra il limite fra coscienza e follia in cui ormai versa l’eroina di Euripide. Nella Lakmé (anche se canta l’aria in italiano) la Callas riesce a distaccare di proposito il suono delle singole parole per illustrare il momento in cui le campanelle iniziano a tintinnare. Evidente il distacco dall’ortodossa pronuncia tradizionale, bensì una vera e propria trascendenza del gioco delle sillabe intese dal compositore come puri suoni. Il suo modo di pronunciare le singole parole permette di comprondere il senso puramente musicale del pensiero dell’autore. La parola diviene, in questo caso, più che mai un veicolo espressivo, già risolto dal compositore. Quanti cantanti invece errano, cercando di esprimere attraverso il canto il comune senso delle parole allorchè le pronunciamo ogni giorno per semplice comodità di relazione.