Martina Franca, 43° Festival della Valle d’Itria 2017: “Le donne vendicate”

Martina Franca, Palazzo Ducale
LE DONNE VENDICATE”
Intermezzo per musica in due parti, libretto di Giuseppe Petrosellini da Carlo Goldoni
Musica di Niccolò Piccinni
Conte Bellezza MANUEL AMATI
Lindora CHIARA IAIA
Ferramonte CARLO SGURA
Aurelia BARBARA MASSARO
Attore MARCO FRANGELLI
Figuranti: Roberta Carbotti, Roberta Loparco, Asia Salamone, Tania Vinci
Orchestra ICO della Magna Grecia
Direttore Ferdinando Sulla
Regia Giorgio Sangati
Scene Alberto Nonnato
Costumi Gianluca Sbicca
Luci Giuseppe Calabrò
Martina Franca, 16 luglio 2017
Da qualche anno il Festival della Valle d’Itria ha scelto di dislocare in alcune masserie storiche della campagna martinese gli allestimenti di opere settecentesche di dimensioni ridotte, affidandole ai giovanissimi cantanti dell’Accademia di Belcanto “Rodolfo Celletti”. In quelle suggestive e informali cornici, le piccole opere buffe, come gli intermezzi nati per intervallare commedie in prosa, paiono recuperare la loro più autentica natura scenica, vuoi per una più stretta interazione con il pubblico, data dall’assenza della pedana di palcoscenico, vuoi per la rapidità del movimento scenico, concessa da uno spazio aperto e non costretto dai sistemi di quinte sceniche. Per la rappresentazione delle Donne vendicate di Piccinni (Roma, Teatro Valle 1763 su libretto di Giuseppe Petrosellini che dei 1312 versi dell’omonimo libretto goldoniano ne recupera solo 113) la splendida facciata interna della coeva Masseria Palesi (1763!), da sola offriva un classico scaenae frons che per funzionare pienamente sul piano teatrale necessitava di pochi elementi, qui ideati da Alberto Nonnato: due armadi fungenti da quinte laterali, all’esterno ricoperti di verzura (a simboleggiare il «giardino» della villetta dov’era ambientata la vicenda) e all’interno recanti arredi che alludevano alla «camera» e al «gabinetto». Con una semplice apertura e chiusura di ante lo scenografo ha salvaguardato la dialettica tra spazi esterni/interni che articolava le mutazioni del libretto originale. Inoltre, durante la scena iniziale della seconda parte – avviata nella sala dove aveva luogo la riunione consiliare delle donne – il primo piano del palazzo è stato illuminato a giorno, lasciando intravedere dai finestroni i bellissimi soffitti affrescati. La masseria pugliese grazie alla magia del teatro diventava, di fatto, la villa sui colli di Bologna pensata come location dell’operina di Piccinni.
Quest’estrema attinenza con il libretto del 1763 non ha riguardato soltanto l’impianto scenico ma ha interessato anche le scelte registiche di Giorgio Sangati – scoperto da Luca Ronconi e poi formatosi al Piccolo Teatro di Milano – che ha definito i movimenti scenici calibrandoli sulle didascalie originali del libretto e sulla gestualità intrinseca alla partitura: i quattro cantanti e lo spassosissimo attore muto, Marco Frangelli, muovevano infatti il corpo ora seguendo gli accenti della musica di Piccinni, ora mimando il contenuto testuale delle arie, qui come non mai ricche di elementi ‘narrativi’. Si prenda ad esempio quella del Conte Bellezza (scena II.4) dove il personaggio millantava le sue doti amatorie «accennando in un luogo dove si figura vi sia una donna»: per materializzare la presenza di questa donna solo immaginata, il regista ha pensato di coinvolgere il maggiordomo-mimo (nel libretto originario era previsto nella scena precedente II.3), che veniva costretto dal conte a danzare con lui avvinghiato in un appassionato tango, con tanto di cascqué! Nella ripetizione della prima sezione dell’aria la donna immaginaria era invece concretizzata da una scopa lasciata a terra dall’inorridito maggiordomo che nel frattempo era fuggito dentro la scena. Per Sangati nell’eterna guerra tra i sessi, l’appartenenza di genere diventa una delle tante maschere. L’insipido testo goldoniano è diventato così il pretesto per una leggera e divertita riflessione sul gender e sulle evoluzioni del concetto di maschile e femminile: non a caso, alla fine dell’opera che vedeva schierate le due coppie (Lindora-Conte e Aurelia-Ferramonte) appena convolate a nozze, a baciarsi sotto i chicchi di riso erano (involontariamente?) i due personaggi maschili. Il regista si è limitato ad amplificare le già forti discrasie caratteriali dei personaggi: Aurelia è una donna che aspira ad essere forte come un uomo ed ha atteggiamenti tipicamente virili; Ferramonte si presenta come un novello paladino di Carlo Magno ma è pusillanime come una ‘femminuccia’; il Conte Bellezza si crede un formidabile amante ma è solo succube del proprio narcisismo che lo spinge a incipriarsi di continuo. Se poi si pensa che nella Roma papale del 1763 alle donne era vietato d’esibirsi sui palcoscenici teatrali e che dunque le parti femminili dell’operina di Piccinni furono interpretate da cantanti castrati, il gioco delle ambiguità sessuali si eleva al cubo.
Questa idea registica di fondo è stata avallata dai costumi di Gianluca Sbicca ispirati alla moda della Belle époque, che tanto bella non era se riferita alla mancata considerazione sociale delle donne. Le figuranti previste dal libretto di Goldoni/Petrosellini erano infatti pensate dal costumista come suffragette (come non pensare alla Mrs Banks di Mary Poppins!) che all’inizio dello spettacolo hanno lanciato tra il pubblico la locandina del cast, declinata a mo’ di volantino di protesta della National Union of Women’s Suffrage (1897). Raffinati alcuni riferimenti iconografici per gli abiti: quello di Aurelia era preso dal Ritratto della contessa De la Maitrie di Charles Albert Walhain (1910); quello del Conte Bellezza alle fotografie dei primi ‘dandy’ ma anche ai primi ritratti fotografici di coppie omosessuali. La freschezza di questa regia – provocatoria e al tempo stesso fedele al testo librettistico e musicale (senza tuttavia mai essere didascalica) – ha trovato terreno fertile in un cast fatto di talentuosissimi ventenni: il martinese Manuel Amati, tenore di grazia già proiettato in una carriera internazionale in svariati teatri d’Italia e d’Europa, ha fatto il suo debutto da protagonista nella terra natale ottenendo autentiche ovazioni, meritatissime. La sua voce è agile nelle colorature, ha timbro prezioso ed è stilisticamente ineccepibile per questo repertorio operistico. Se a ciò si aggiunge una perfetta dizione nei veloci recitativi (che gli operisti del tempo definivano non a caso «parlanti» o «correnti») e una spiccata verve di attore, si può essere sicuri che questo ragazzo sarà destinato a una carriera fulgida. Analogo discorso può farsi per i due soprani Barbara Massaro e Chiara Iaia, che nelle loro arie hanno saputo dominare l’insidiosa tessitura piccinniana, tutta giocata sul passaggio di registro e su improvvise incursioni nelle zone acute. Più pieno il volume della Massaro, consono al personaggio accigliato di Aurelia; di timbro più chiaro la voce della Iaia che vestiva alla perfezione i panni della svampita Lindora. Carlo Sgura non ha solo esibito una voce baritonale voluminosa e tecnicamente già matura, ma è anche riuscito ad essere una pura macchietta comica. Raramente capita che il pubblico si sganasci dalle risate assistendo a una farsetta settecentesca che, al più, permette risatine a denti stretti. Operazioni come questa dimostrano la vitalità dello spettacolo comico settecentesco che non cessa di porre interrogativi in parte ancora oggi irrisolti. Si replica il 28 luglio, sempre alla Masseria Palesi, e il 24 luglio alla Masseria Luco.