Milano, Teatro alla Scala: “Fidelio”

Teatro alla Scala di Milano – Stagione d’Opera e Balletto 2014/2015
“FIDELIO”
Opera in due atti – Libretto di Joseph Ferdinand Sonnleithner e Georg Friedrich Treitschke
Musica di Ludwig van Beethoven
Don Fernando PETER MATTEI
Don Pizarro FALK STRUCKMANN
Florestan KLAUS FLORIAN VOGT
Leonore ANJA KAMPE
Rocco KWANGCHUL YOUN
Marzelline MOJCA ERDMANN
Jaquino FLORIAN HOFFMANN
Erster Gefangener ORESTE COSIMO
Zweiter Gefangener DEVIS LONGO
Coro e Orchestra del Teatro alla Scala
Direttore Daniel Barenboim
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia Deborah Warner
Scene e costumi Chloe Obolensky
Luci Jean Kalman
Nuova produzione Teatro alla Scala
Milano, 20 dicembre 2014

Il Fidelio di Beethoven che ha inaugurato la Stagione d’Opera 2014/2015 del Teatro alla Scala di Milano e che è giunto alla sua quarta rappresentazione con la recita di questa sera, costituisce una tappa storica per il teatro milanese: segna la fine del mandato di Daniel Barenboim quale direttore musicale e l’inizio ufficiale dei lavori di Alexander Pereira quale direttore artistico e sovrintendente.
Durante i suoi nove anni di presenza al Piermarini, Barenboim ha ricevuto quasi sempre affetto incondizionato dal pubblico milanese, riconoscente al maestro argentino per la sua generosità nell’impegno a divulgare la musica (anche attraverso il mezzo televisivo, i libri e le presentazioni pubbliche relative) che ha di fatto favorito un rapporto diretto col pubblico stesso. Tuttavia, l’esito delle produzioni che lo vedevano coinvolto in prima persona non ha raccolto sempre giudizi positivi dalla critica (come al contrario fu per il memorabile Tristan und Isolde di Wagner che inaugurò la stagione 2007/2008), basti pensare al Così fan tutte della scorsa stagione, piuttosto deludente sotto molti punti di vista.
Con questo Fidelio, secondo il modesto parere di chi scrive, Barenboim ha trovato il modo migliore per chiudere una fase importante della sua carriera e della vita del Teatro alla Scala: ha diretto un’opera a lui molto congeniale, formando (in accordo con il responsabile delle compagnie di canto, evidentemente) un cast di voci idonee ai ruoli che dovevano ricoprire e mettendo in campo le sue qualità migliori. Da grande conoscitore della sinfonia, ha esaltato l’aspetto prettamente sinfonico dell’opera senza trascurarne il senso drammatico, dimostrando a chi pensa che Fidelio non ne abbia, che si sbaglia di grosso; contribuendo così a demolire alcuni luoghi comuni intorno a Fidelio e per un musicista questo è senz’altro uno degli obiettivi più nobili e uno dei risultati più apprezzabili.
Barenboim ha scelto di eseguire la Leonore n.2 come sinfonia d’apertura poiché, a suo parere, sintetizza meglio il contenuto drammatico dell’opera, anche se Beethoven stesso la scartò, seguendo quindi un criterio che forse ha fatto storcere il naso a qualche musicologo, del cui lavoro, per la verità, Barenboim non ha mai dimostrato un grande interesse.
L’orchestra, dalla sua parte, ha dato il meglio di sé forse perché emotivamente coinvolta dal commiato del suo direttore musicale e ha assecondato e seguito con partecipazione la concertazione di Barenboim, il cui gesto non brillerà per eleganza e precisione ma ha il pregio di comunicare perfettamente l’intenzione musicale. Del resto, si sa che l’orchestra ha sempre apprezzato le qualità squisitamente musicali del direttore, un uomo che, a detta di gran parte delle persone che ci hanno lavorato assieme, vive letteralmente nella musica.
È forse vero che durante gli anni di Barenboim e Lissner (sovrintendente e direttore artistico che ha preceduto Pereira), ad essere bistrattato è stato più che altro il repertorio italiano (e su tutti Verdi) anche per l’inadeguatezza e discutibilità di registi, cantanti e direttori d’orchestra.
Si deve però dare il merito agli stessi Barenboim e Lissner di aver offerto al pubblico della Scala la possibilità di godere dell’ascolto di opere raramente eseguite (e per alcune si fatica a capire il perché, dal momento che nei cartelloni degli altri paesi compaiono di frequente) e di spettacoli che hanno lasciato il segno per la qualità altissima dell’esecuzione e della messinscena, come ad esempio il Peter Grimes di Britten diretto da Robin Ticciati con la regia di Richard Jones.
Un’altra opera di Britten, Death in Venice, rientra a pieno titolo nell’elenco di questi spettacoli memorabili, soprattutto per la regia curata da Deborah Warner, la stessa regista che firma la regia del Fidelio di cui ci stiamo occupando.
Questo Fidelio non ha forse la poesia visiva che aveva Death in Venice ma del resto più l’opera è famosa e più risulta difficile dire qualcosa di nuovo e in modo nuovo (fatto dimostrato dalla regia del Don Giovanni curata da Robert Carsen per l’apertura della stagione 2011 / 2012 che non fu sorprendente come quasi sempre è Carsen).
Si tratta comunque di un allestimento di altissimo pregio quello curato dalla Warner, da Chloe Obolensky (Scene e costumi) e da Jean Kalman (luci) e ben calibrato sugli interpreti. Proprio questo aspetto ha colpito molto, tutti gli interpreti davano vita a personaggi autentici e questo senz’altro grazie alle loro capacità e alla loro esperienza ma sicuramente anche grazie alla guida attenta e intelligente del gruppo Warner-Obolensky-Kalman.
La Warner e il suo staff hanno ricreato sul palcoscenico una realtà quotidiana che il pubblico può riconoscere (come del resto avveniva quando veniva rappresentata un’opéra à sauvetage, quale è Fidelio) ambientando l’opera in una fabbrica abbandonata, utilizzata provvisoriamente come prigione, un luogo – come ha avuto modo di spiegare la stessa Warner – dove sono stati commessi efferati crimini di guerra e dove uomini sono stati fatti sparire per essere uccisi.
In questo contesto è normale che ad emergere, per contrasto, sia l’aspetto nobile della vicenda: nel buio della prigione, in un luogo così tetro e soffocante è facile farsi convincere del fatto che l’unica cosa che possa salvare il prigioniero sia l’amore tenace dell’amata.
L’opera richiede interpreti di prim’ordine; soprattutto i ruoli principali, Leonore e Florestan, impongono un impegno vocale non indifferente.
Il personaggio di Leonore è stato impersonato da Anja Kampe che ha dimostrato ottime qualità in termini di presenza scenica e di resa della parte vocale. Anche se il cambio dei registri risulta a volte un po’ macchinoso e qualche acuto un po’ corto, il colore della voce è molto interessante e conferisce al personaggio la giusta fierezza e determinazione che lo contraddistinguono. Il risultato raggiunto dal soprano tedesco è ragguardevolissimo dal momento che si tratta di un ruolo così complesso (forse solo Kirsten Flagstad era in grado di cantarlo dall’inizio alla fine senza la minima sbavatura).
La Kampe ha gestito egregiamente la grande scena del primo atto (“Abscheulicher! Wo eilst du hin?”), cesellando ogni sfumatura con grande intelligenza interpretativa e ha dato prova delle sue fini capacità attoriali specialmente durante l’incontro con Florestan all’interno della prigione sotterranea. Ha mostrato i segni della stanchezza solamente  durante il duetto dei due amanti finalmente ritrovati, “O namenlose Freude”.
Anche Florestan, Klaus Florian Vogt, non ha deluso le aspettative, affrontando il ruolo con un canto sincero e chiaro dal punto di vista della dizione (che sembra il risultato di un approccio liederistico nella resa del testo), anche se con l’avanzamento dell’opera ha un po’ perso la morbidezza che aveva all’inizio, non riuscendo a evitare qualche durezza nell’emissione.
Applauditissimo il Rocco di Kwangchul Youn – baritono sudcoreano che collabora spesso con Barenboim – che ha sfoggiato una voce sicura e una disinvoltura sulla scena premiata dal pubblico della Scala.
Molto graziosa la Marzelline di Mojca Erdmann, soprano di bell’aspetto e vocalmente adatta al ruolo (anche se forse con un’orchestra dall’organico ridotto la sua voce si sarebbe potuta udire e apprezzare meglio) che formava una coppia-non coppia perfetta col Jaquino di Florian Hoffmann, più che corretto e convincente sulla scena.
Ci si poteva aspettare forse qualcosa di più dal Don Pizarro di Falk Struckmann, cantante di notevole esperienza. Non che fosse fuori posto, ma non si può dire che abbia regalato una visione personalissima del personaggio, pur avendone restituito le appropriate caratteristiche e sfumature umane.
Molto buona la prova del coro diretto da Bruno Casoni e dei coristi che impersonavano le parti dei due prigionieri solisti (Oreste Cosimo e Devis Longo). Il coro ha dimostrato di aver fatto proprie le richieste della regista contribuendo al successo di uno spettacolo che ha messo in luce il pregio di un’opera poco conosciuta – e un po’ travisata – dal pubblico italiano. Foto Brescia/Amisano Teatro alla Scala