Milano, Teatro alla Scala: “Fierrabras”

Milano, Teatro alla Scala, stagione lirica 2017/18
FIERRABRAS
Melodramma eroico-romantico in tre atti su libretto di Josef Kupelwieser
Musica di Franz Schubert
Köning Karl TOMASZ KONIECZNY
Emma ANETT FRITSCH
Roland MARKUS WERBA
Eginhard PETER SONN
Boland LAURI VASAR
Fierrabras BERNARD RICHTER
Florinda DOROTHEA RÖSCHMANN
Maragond MARIE-CLAUDE CHAPPUIS
Brutamonte GUSTAVO CASTILLO
Ogier MARTIN PISKORSKI
Eine Jungfrau ALLA SAMORKHOTOVA
Orchestra e coro del Teatro alla Scala
Direttore Daniel Harding
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia Peter Stein
Ripresa da Bettina Geyer e Marco Monzini
Scene Ferdinand Wögerbauer
Costumi Anna Maria Heinreich
Luci Joachim Barth
Allestimento  Salzburger Festspiele
Milano, 9 giugno 2018
Schubert entra alla Scala per la prima volta con un titolo operistico e, per quanto la cosa possa sembrare sorprendente, in fondo trova piena giustificazione nei pregiudizi che a lungo hanno accompagnato la valutazione del teatro musicale del compositore viennese. Ripetuta all’infinito la teoria della scarsa – o nulla – teatralità delle sue opere, alla fine ha portato a un oblio quasi totale di questa produzione. Pregiudizi in parte fondati, essendo le opere schubertiane limitate dalla debolezza dei librett; è questo un problema  comune, peraltro, a quasi tutto il teatro tedesco pre-wagneriano dovuto anche alla ricerca da parte di Schubert di un proprio linguaggio musicale autonomo tanto dalla tradizione italiana quanto dalle coeve esperienze dei romantici tedeschi. Il suo teatro rinuncia sostanzialmente all’aria – sia nel senso italiano sia in quello francese del termine – sostituendola con una struttura autonoma che deriva dalle forme del Lied riadattate per il contesto teatrale. Questo aspetto ha portato a considerare a lungo queste opere quasi come Liederaben sceniche ignorando quanto la libertà strutturale del lied permetta di piegarlo alle singole esigenze drammaturgiche. Se a questo si aggiunge una concezione rapsodica del teatro, fatto di singoli momenti giustapposti piuttosto che di quella coerenza narrativa che l’opera italiana stava perseguendo non è difficile capire come questa idea teatrale sia stata a lungo fraintesa. Fraintendimento che ha riguardato in modo particolare quello che è probabilmente il vertice più alto del teatro musicale schubertiano, quel “Fierrabras” di fatto caduto nel totale oblio fino alla sfolgorante riscoperta abbadiana del 1988. Per portare “Fierrabras” alla Scala non si poteva scegliere direttore migliore di Daniel Harding che di Abbado è stato fra gli allievi più vicini e devoti. E molto abbadiana è la scelta interpretativa del maestro inglese che crede fortemente anche nel valore teatrale – e non solo musicale – dell’opera di Schubert. Fin dall’ouverture si notano lampi di tensione in un’atmosfera prettamente romantica nelle sue cifre espressive e sonore. E se nei molti punti in cui la partitura lo richiede Harding possiede tutta la trasparente leggerezza richiesta ad esempio nei due cori femminili che aprono gli atti esterni, nel chiarore notturno della serenata di Eginhard e del successivo duetto con Emma (una delle pagine più vicine allo stile più classico di Schubert liederista), nello splendido duetto fra Florinda e Maragond di un abbandono melodico quasi mozartiano, passi in cui la partitura si infiamma, Harding mostra di credere fermamente nel potenziale di questa musica. Autentici turbini romantici scuotono l’orchestra nella scena dell’inganno in cui cadono i paladini cristiani e nel successivo monologo di Florinda dove la tempesta dei sentimenti che scuotono l’animo della principessa moresca è accompagnata da un’orchestra di un’espressività dal calor bianco. Ma sono tutti i momenti aulici, eroici a confermare e arricchire questa visione nervosa e tragica, pienamente liberata dalle sdolcinature Biedermeier che a lungo hanno accompagnato l’interpretazione schubertiana. L’idea del direttore è pienamente realizzata dai complessi scaligeri che confermano l’abituale alto livello qualitativo sia per quanto riguarda l’orchestra sia per la parte corale significativamente impegnata da Schubert con una particolare nota di merito per l’incantevole leggerezza con cui la sezione femminile esegue le aperture di I e III atto. Nell’insieme positiva la compagnia di canto pur con qualche elemento sotto tono rispetto agli altri. A deludere è principalmente la coppia reale franca. Voce robustissima e molto sonora quella di Tomasz Konieczny ma purtroppo afflitta da un canto spesso rozzo e forzato e da un’emissione sempre fin troppo caricata così che il suo Carlo Magno manca sia dell’autorità del Re sia della tenerezza del padre sostituite da un tono sempre e inutilmente truce. Anett Fritsch è più espressiva e musicale e l’elegante figura scenica è perfetta sul palcoscenico ma soffre di gravi difficoltà nel settore acuto con suoni piccioli e imprecisi che purtroppo compromettono una prestazione che nelle altre componenti non sarebbe priva di interesse. Sul versante opposto si pone la coppia amorosa Roland e Florinda. Markus Werba ha trovato nel paladino un ruolo congeniale quanto il suo celeberrimo Papageno. Voce chiara, squillante, eroica, ottima emissione e facilità di canto su tutta la linea uniti a un taglio interpretativo di appassionato eroismo confermano Werba fra i più interessanti baritoni chiari dell’attuale scena lirica tedesca. Dorothea Röschmann (Florinda) con il passare degli anni si è fatta più prudente sugli acuti ma ha mantenuto inalterate la robustezza del corpo – il settore meno grave è di una pienezza non così comune in questo tipo di vocalità – e l’opulenza del timbro mentre l’interpretazione è di assoluta incisività, tesa come un arco di violino nei non rari momenti di tensione emotiva ma capace di essere carezzevole e dolcissima nel duetto con Maragond o in generale nelle parti più liriche. Il suo Melodram in cui descrive la battaglia in un climax espressivo emerge come il momento forse più emozionante della serata. Nel ruolo protagonista Bernard Richter compensa qualche difficoltà negli acuti con un canto generoso ma sempre controllato e molto musicale. Il timbro caldo e rotondo è sicuramente molto piacevole e l’accento nobile ed eroico sono perfetti per il personaggio. Un po’ greve e non sempre ben controllato negli acuti l’Eginhard di Peter Sonn che ha però il merito di evitare eccessive svenevolezze cui a tratti il ruolo sembra invogliare; l’artista risolve bene i pianissimi e le mezze voci e sul piano espressivo riesce a cogliere l’ambigua natura del ruolo, sempre diviso fra dolcezze sentimentali e impeto guerriero. Il Boland di Lauri Vasar è nella sua grossolanità di fondo un perfetto pari al Carlo di Konieczny;  Gustavo Castillo si limita a far sentire la robustezza del mezzo vocale ma la parte di Brutamonte non offre molto altro all’interprete. Elegante e musicalissima la Maragond di Marie-Claude Chappuis, pienamente efficaci l’Ogier di Martin Piskorski e la fanciulla di Alla Samokhotova. Meno banale di quanto apparrebbe di primo acchito lo spettacolo salisburghese di Peter Stein con scene di Ferdinand Wögerbauer e costumi di Anna Maria Heinreich. Partendo dall’idea dell’opera come successione di scene separate, il regista inquadra la vicenda come una serie di incisioni o di tavole librarie che si succedono pagina dopo pagina mentre un ipotetico lettore legge le vicende. A inquadrare la scena è una cornice di gusto neoclassico coronata da uno stemma araldico sostenuto da personificazioni recante al suo interno la firma e gli inconfondibili occhiali tondi di Schubert all’interno della quali le scene si succedono come incisioni progressive. Il taglio grafico richiama i modi tipici delle incisioni librarie sette-ottocentesche e uno sguardo attento riconosce i tipici effetti della stampa che movimentano le superfici. Le scene si sviluppano con i tipici effetti prospettici delle immagini librarie del tempo che trasponevano sul piano della bicromina l’impianto delle coeve scene teatrali. Anche la rigida bicromia dei costumi che richiamano il medioevo immaginato dalle generazioni romantiche tutti giocati su rigorose alternanze di bianco e di nero – con prevalenza del primo per i franchi, del secondo per i mori – rimanda allo stesso sistema di riferimenti. Il risultato è uno spettacolo forse non originalissimo ma di grande eleganza e con alcune soluzioni molto belle specie nell’atto moresco e nella scena del giardino. In un taglio così rigoroso si notava con maggior evidenza qualche imprecisione nella recitazione così come qualche movimento non sempre spiegabile del coro forse dovuti alla ripresa dell’allestimento.