Milano, Teatro alla Scala: “La Bohème”

Milano, Teatro alla Scala, Stagione Lirica 2014/2015
LA BOHÈME
Opera in quattro quadri di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa da “Scènes de la vie di bohème” di Henri Murger.
Musica di Giacomo Puccini
Rodolfo VITTORIO GRIGOLO
Marcello MASSIMO CAVALLETTI
Colline CARLO COLOMBARA
Schaunard MATTIA OLIVIERI
Mimì MARIA AGRESTA
Musetta ANGEL BLUE
Alcindoro MATTEO PEIRONE
Benoit DAVIDE PELISSERO
Parpignol CRISTO VASSILACO
Sergente dei doganieri ALEJANDRO GIL
Un doganiere GUSTAVO CASTILLO
Un venditore ambulante ANDRÉS SULBARÀN
Coral e Orquesta Sinfònica Simòn Bolivar de Venezuela
Maestro del coro Lourdes Sànchez
Coro di Voci Bianche dell’Accademia del Teatro alla Scala
Maestro del coro di voci bianche Bruno Casoni
Direttore Gustavo Dudamel
Regia e scene di Franco Zeffirelli
ripresa da Marco Gandini
Costumi di Piero Tosi
Milano, 28 agosto 2015

 La Bohème per antonomasia firmata Franco Zeffirelli torna a Milano in tutto il suo splendore, senza accusare minimamente il passare del tempo. Si tratta senz’altro dello spettacolo che il Teatro alla Scala ha più spesso riproposto nel dopoguerra, e non è difficile immaginare il perché. Una Bohème intramontabile, che dal suo debutto nel 1963 è approdata nei maggiori teatri del mondo e si è fatta amare da critica e pubblico incondizionatamente e invariabilmente fino ad oggi, diretta dalle più autorevoli bacchette e interpretata dalle migliori voci in circolazione di decennio in decennio. Anche stavolta, pur impegnandosi, sarebbe assai difficile trovare dei difetti in questa trionfale serata scaligera, successo garantito da un allestimento che ha fatto (e continua a fare) storia, riportato alla ribalta da un cast di prima scelta all’interno del panorama lirico odierno.
Questa mise-en-scène, ripresa da Marco Gandini, è ormai così scolpita nell’immaginario collettivo che sarebbe superfluo riproporne una descrizione dettagliata atto per atto. Basti dire che – pur con un certo margine di approssimazione – questa Bohème è Zeffirelli e Zeffirelli è questa Bohème. Non mancano l’estetica pittorica e la cura maniacale del dettaglio visivo in delicati equilibri tra materia, luce, colore: pensiamo alla soffitta grigia e spoglia trafitta dal pallido sole parigino che filtra dai vetri logori, o la finezza dell’effetto nebbia che avvolge la Barriera d’Enfer, dato dalla sovrapposizione di teli di spessori e colori leggermente differenti. Non manca la sapiente gestione dello spazio: il secondo quadro vede la geniale compresenza di interni ed esterni, in una sezione frontale che mostra sopra un viale alberato e sotto l’interno del Caffè Momus, rendendo il tutto particolarmente funzionale e suggestivo nel suo insieme. Non manca lo studio minuzioso dei costumi – firmati da Pietro Tosi e ripresi da Alberto Spiazzi – dal maglione di un protagonista al calzino dell’ultima comparsa: c’è da perdersi nella bellezza degli abiti dei coristi, da un velluto blu oltremare a un foulard scozzese, ad un merletto bordeaux, agli elegantissimi e variegati cappelli delle signore…e potremmo continuare quasi all’infinito. Non manca la guida sapiente del gesto scenico, né la logica nel movimento delle masse, espressivo ma mai disturbante. Non manca nulla. Tutti questi elementi, cuciti addosso al capolavoro pucciniano, concorrono a raccontare e trasmettere un realismo schietto e la sua sublimazione poetica, la descrizione naturalistica di un ambiente e lespressione di unatmosfera: una straordinaria e riuscita sintesi che con la partitura si sposa perfettamente. Se un allestimento così amato e riproposto non deve temere lo scorrere del tempo, sul fronte musicale potrebbe rivelarsi scomodo avere illustri predecessori che abbiano calcato esattamente le stesse scene, prestandosi a sempre futili ma facili confronti. Fortunatamente, come si accennava, nella ripresa di Bohème in questa Stagione 2014/15, un cast stellare ha garantito un livello eccellente anche dal punto di vista vocale.
Maria Agresta canta una Mimì di gran pregio. Un ruolo, questo, che le è particolarmente caro e congeniale, nonché ormai ampiamente collaudato. La  Agresta si conferma un’artista di fine intelligenza, in grado di sfoggiare  un fraseggio rifinito, elegante, impreziosito da una gran ricchezza di intenzioni espressive. Una prima manifestazione lampante di queste doti è il suo “Sì, mi chiamano Mimì” – del quale abbiamo in particolare apprezzato i delicatissimi filati – che si porta a casa immediatamente fragorosi applausi a scena aperta. La sua interpretazione si arricchisce di quadro in quadro, assecondando e rendendo appieno quella cifra tragica che man mano si fa più spazio nel personaggio. L’arioso del quarto e ultimo quadro (“Sono andati? Fingevo di dormire”) è coinvolgente: un’interpretazione accorata ma composta, quasi solenne nell’incedere e allo stesso tempo impregnata di emotività. Una tra le pagine più toccanti dell’opera in assoluto, ma che in questa serata in particolare – grazie a un’esecuzione magistrale – possiamo tranquillamente annoverare tra “quelle cose che han nome poesia.”
Compostezza e misura non sono invece gli aggettivi che più si addicono a Vittorio Grigolo, la cui personalità debordante non gli impedisce però di offrirci un Rodolfo davvero interessante. Sembra che maturando il tenore aretino stia imparando a controllare il suo noto eccesso di baldanza: se in passato l’indubbia qualità del mezzo vocale veniva puntualmente oscurata da esagerazioni attoriali e libertà interpretative fuori luogo, oggi – sperando non sia un caso isolato – abbiamo potuto goderci la performance di un vero tenore prima che di un animale da palcoscenico (basta l’attacco “Nei cieli bigi / guardo fumar dai mille / comignoli Parigi” per sentire aria di cambiamento: Parigi ha eccezionalmente una P sola e nessun ululato a corredo). In sé la voce di Grigolo è affascinante, e possiamo finalmente godercela in pace. Ricca di armonici e ben impostata in ogni angolo della tessitura, brunita, calda, pastosa, solida e sonora anche in acuto, con un’emissione sempre sicura. “Che gelida manina”, ad esempio, è sì interpretata con trasporto, ma insolitamente scevra da assurde forzature, con un risultato davvero notevole sia dal punto di vista tecnico che emotivo/interpretativo. Più che soddisfacente sul fronte musicale, Grigolo non ha certo dimenticato come si reciti. Semplicemente, avendo trovato una giusta misura nel governare il gesto scenico, i movimenti e gli atteggiamenti sul palco non sono più così disturbanti, ma seducenti e funzionali alla resa del personaggio. Tirando le somme, un Rodolfo d’eccezione promosso a pieni voti.
Ottima prova anche per Massimo Cavalletti nei panni del pittore Marcello. Il baritono ha voce rotonda e ben proiettata (forse meno incisiva nelle zone più acute, ma nulla di grave). Fraseggio accurato e spiccata musicalità permettono a Cavalletti di disimpegnarsi con facilità nella cosiddetta “conversazione pucciniana”, risultando particolarmente efficace nei sipari scherzosi in soffitta e nei diverbi con Musetta nel secondo quadro. Quest’ultima ha il volto e la voce di Angel Blue (con uno ha vinto Miss Hollywood 2005, con l’altra Operalia). Il soprano californiano impersona una Musetta sorridente, genuina e mai volgare. In “Quando m’en vo’ ” rivela un timbro assai gradevole, interpretando il noto Valzer in equilibrio tra seduzione e dolcezza, senza cadere in smancerie o cadute di stile che spesso si sprecano in questo ruolo.  Carlo Colombara è un Colline di lusso. Con una presenza scenica magnetica e una voce tanto sonora quanto accattivante, il basso bolognese ha reso un ottimo ritratto del filosofo. “Vecchia Zimarra” è cantata divinamente, tanto da guadagnarsi scroscianti applausi a scena aperta. Disinvolto e ben cantato anche lo Schaunard del baritono Mattia Olivieri, che completa brillantemente il gruppo di bohemiennes.  Divertentissimo infine Matteo Peirone nei panni del nobile e sprovveduto Alcindoro. Buono il Benoit di Davide Pellissero e corretti gli interventi dei comprimari: Cristo Vassilaco (Parpignol), Alejandro Gil (Sergente), Gustavo Castillo (Doganiere) e Andrés Sulbaràn (Venditore ambulante). Se l’allestimento è tra i più celebri al mondo e per il cast si è attinto a piene mani dallo Star System contemporaneo, questa ripresa riserva una novità. Assecondando il respiro internazionale portato da EXPO a Milano in questi mesi, Coro e Orchestra di casa lasciano spazio al Coral e Orquesta Sinfònica Simòn Bolivar De Venezuela. Ottima la prova del coro diretto da Lourdes Sànchez (affiancato dalle Voci Bianche dellAccademia del Teatro alla Scala dirette da Bruno Casoni), il cui contributo è significativo per la perfetta riuscita del secondo quadro. Diamo infine uno sguardo in buca, dove l’età media non supera i 22 anni. Senza pregiudizi e ad ascolto terminato si può dire che manchi logicamente l’esperienza, ma non talento, coesione e travolgente vitalità musicale. Merito certo anche delle istruzioni dal podio, anch’esso venezuelano, con la giovane e illustre bacchetta di Gustavo Dudamel (già direttore di questa Bohème scaligera nel 2008). L’orchestra  sudamericana sfoggia un tripudio di colori e sonorità che Dudamel guida e gestisce abilimente, escluso qualche eccesso nella dosatura del volume che talvolta sfugge di mano. La concertazione è però nel suo complesso più che positiva, e il direttore stacca brillantemente i tempi ondeggiando con disinvoltura tra la vivacità della spensierata vita bohèmienne e i momenti d’ampio respiro lirico. Alla fine convinti applausi per tutti ribadiscono il successo annunciato di un classico intramontabile, con meritate ovazioni per i due protagonisti.