Milano, Teatro alla Scala: “La finta giardiniera”

Milano, Teatro alla Scala, stagione d’opera e balletto 2017/2018
“LA FINTA GIARDINIERA
Dramma giocoso in tre atti su libretto di Giuseppe Petrosellini.
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Don Anchise, Podestà di Lagonero KREŠIMIR ŠPICER
La marchesa Violante sotto il nome di Sandrina HANNA-ELISABETH MÜLLER
Il contino Belfiore BERNARD RICHTER
Arminda ANETT FRITSCH
Il cavalier Ramiro LUCIA CIRILLO
Serpetta GIULIA SEMENZATO
Nardo MATTIA OLIVIERI
Orchestra del Teatro alla Scala su strumenti storici
Direttore Diego Fasolis
Regia Frederic Wake-Walker
Scene e costumi Antony McDonald
Luci Lucy Carter
Produzione Glyndebourne Opera Festival
Milano 20 ottobre 2018
Opera minore. Opera giovanile. Tanti sono i luoghi comuni che ancora circondano “La finta giardiniera” composta nel 1775 da un Mozart diciannovenne per il Salvatortheater di Monaco; eppure l’opera rappresenta insieme al precedente “Mitridate re del Ponto” un momento di svolta nella carriera mozartiana. Ancor più falsante la definizione di opera minore, perché “La finta giardiniera” tale è solo alla luce dei capolavori che seguiranno ma l’ancor giovanissimo Mozart fa qui già pienamente intuire quanto sboccerà a breve e segna già uno stacco di passo non indifferente nei confronti di gran parte dell’opera buffa del tempo. La musica è infatti già di una qualità altissima – e il notevole libretto di Petrosellini una sorta di prova generale di quelle dapontiani – Per quanto difficile a credersi questa produzione costituisce di fatto la prima volta dell’opera nella sala del Piermarini contandosi nei 243 precedenti soltanto due riprese – per un totale di sole nove recite – tra il 1970 e il 1971 alla Piccola Scala.
Importato dal Glyndebourne opera festival, lo spettacolo di Frederic Wake-Walker è un autentico capolavoro, un esempio raro di come si possano essere modernissimi nella regia pur rispettando i contesti storici e culturali delle singole opere. Nel primo atto la scena di Antony McDonald ci presenta un padiglione rococò in legno e stucchi dove il gusto didascalico e l’attenzione ai particolari ricordano gli storici spettacoli firmati da Schenk a Vienna o a Monaco con il solo apparire di qualche segno di decadenza fra graticci spezzati e calcinacci cadenti. La recitazione è fin troppo forzata, troppo evidente l’ironia di una certa visione ormai superata del teatro mozartiano ma è solo un’illusione, un primo travestimento. Nel secondo atto le fila cominciano a serrarsi, i travestimenti a cadere, le architetture perdono di consistenza, si fanno eterei fondali che nel corso dell’atto si squarciano o crollano lasciando comparire una selva dipinta; nel contempo la recitazione si fa più naturale, le maschere cadano. Domina una natura ancora costruita ma meno artificiosa delle architetture in cui i sentimenti possono cominciare a rivelarsi nella loro sincerità. Sarà questa foresta a fare da sfondo a gran parte del III atto fino a cadere anch’essa lasciando tutti immersi in uno spazio metateatrale vuoto, una sorta di empireo platonico dove può sublimarsi l’essenza più pura degli affetti umani. Uno spettacolo quindi solo apparentemente didascalico ma di una ricchezza e di una profondità non così facili da vedere in teatro. L’eleganza delle scene e gli spettacolari costumi – di un Settecento fiabesco e coloratissimo – completavano al meglio la parte visiva. Alla qualità della parte visiva corrisponde la qualità di quella musicale. Personalmente ho sempre amato molto le direzioni mozartiane di Diego Fasolis, capace come pochi di fondere rigore filologico e autentica teatralità e le attese non sono andate deluse. Il maestro ticinese guida l’orchestra scaligera impegnata su strumenti originali in una lettura di grande efficacia. Fasolis ottiene dagli strumenti originali una pienezza di suono e una ricchezza di timbri e di colori che nulla ha da invidiare a un’esecuzione con strumenti moderni arricchendola però di quella dinamicità, di quella brillantezza che solo quelli originali riescono a far emergere da queste musiche. Una teatralità e una coerenza d’insieme che non sacrificano però la cura del dettaglio che emerge nell’attenzione agli impasti timbrici, nella chiarezza delle linee dei grandi pezzi d’insieme, nella cura con cui sono svolte le arie con strumento obbligato. Il cast non è perfetto, anche se la qualità media è molto alta e soprattutto riesce a trasmettere un senso di affiatamento. Ritornata in scena dopo il malore che l’aveva costretta a cancellare alcune recite, Hanna-Elisabeth Müller è una Violante incantevole. La voce ha una serica luminosità, la musicalità è impeccabile, l’accento intenso e profondamente umano come richiede il personaggio più autenticamente sincero della vicenda. La parte ondeggia continuamente fra un taglio lirico/patetico – come nella deliziosa aria di imitazione “Geme la tortorella” – e un canto più virtuosistico  e la Müller dimostra di possedere pienamente entrambe le componenti. Bernard Richter è un Belfiore perfettamente centrato. La voce è sì chiara e luminosa ma al contempo robusta, solida e virile. Richter si disimpegna molto bene già nell’aria di sortita che con il suo carattere parodistico e comico è quasi un unicum nel taglio sostanzialmente serio del personaggio ma dà il suo meglio nell’abbandono dell’elegantissima “Care pupille belle” – e soprattutto nell’intensità del duetto finale con Violante. L’altro tenore, il croato Krešimir Špicer affronta il Podestà con piglio e convinzione e mostra validissime doti attoriali e un’invidiabile comunicativa. Sul piano vocale è più debole con un canto abbastanza monocorde e con scarse capacità dinamiche nonostante un materiale vocale non trascurabile.  Anett Fritsch evidenzia acuti difficoltosi con suoni che tendono a farsi striduli con il salire della tessitura ma il tipo di vocalità gli risulta sicuramente congeniale e sul piano espressivo rende bene il carattere perennemente sopra le righe della viziata Arminda. Lucia Cirillo (Don Ramiro) ha voce meno sonora rispetto ai colleghi ma il timbro è bello e la linea di canto curata e precisa emerge nella cura dei recitativi e nelle arie. Scenicamente perfetta nel taglio piratesco con cui la regia tratteggia il suo personaggio. Serpetta è una Despina più ingenua e sofferta e trova interprete ideale in Giulia Semenzato. Voce chiara, leggera, squillante da autentica soubrette – nel senso migliore del termine – omogenea e sicurissima su tutta la gamma; tra le sue doti spiccano una linea di canto inappuntabile e un temperamento da vendere. Colpisce nella Semenzato ancor più delle indubbie qualità vocali la maturità scenica, la capacità di dominare la scena con grande naturalezza per una cantante di così giovane età. Al suo fianco l’ipercinetico Nardo di Mattia Olivieri autenticamente scatenato scenicamente ma capace di non perdere mai il controllo del canto anche nelle più movimentate situazioni. Voce schietta e robusta, di bel colore e di ottima sonorità, dizione esemplare, naturale comunicativa, fraseggio ricco e variato – ad esempio con quale ricchezza di accenti rende l’attesa sempre più spazientita di “Con un vezzo all’italiana”. Semenzato e Olivieri sono due giovanissimi talenti per cui è facile prevedere un luminoso avvenire. Sala non gremita ma buona presenza di pubblico considerando la rarità del titolo e trionfale successo per tutti gli interpreti. L’entusiasmo all’uscita del teatro dei tanti bambini presenti è la definitiva conferma di una giornata veramente coinvolgente.