Napoli, Teatro di San Carlo: “Pagliacci”

Napoli, Teatro di San Carlo, Stagione d’opera e danza 2018/19
PAGLIACCI”
Dramma in un prologo e due atti su libretto dell’autore.
Musica di Ruggiero Leoncavallo
Nedda MARIA JOSÉ SIRI
Canio ANTONELLO PALOMBI
Tonio DIMITRIS TILIAKOS
Peppe FRANCESCO PITTARI
Silvio DAVIDE LUCIANO
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
con la partecipazione del Coro di Voci Bianche del Teatro di San Carlo
Direttore Philippe Auguin
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Maestro del Coro di Voci Bianche Stefania Rinaldi
Regia Daniele Finzi Pasca
Scene Hugo Gargiulo
Coreografie Maria Bonzanigo
Costumi Giovanna Buzzi
Luci Daniele Finzi Pasca e Alexis Bowles
Acrobati della Compagnia Finzi Pasca
Napoli, 9 febbraio 2019
Dopo cinque anni ritorna, al Teatro di San Carlo di Napoli, Pagliacci, dramma in un prologo e due atti del compositore napoletano Ruggiero Leoncavallo, su libretto dell’autore. Sul podio, Philippe Auguin. Il suo indirizzo interpretativo risulta essere conciso, palpitante, frenetico, caratterizzato da una costante corposità strumentale anche nelle espansioni sonore più vistose. Un clima sonoro tratteggiato da una consapevole veemenza espressionistica, non già mero ed assoluto edonismo sonoro, ma rara e sapiente propensione alla conquista d’una prodigiosa teatralità, entro cui furoreggia una veristica veridicità sonora. La vorticosa marcatura dei profili melodici, mai allentati, unitasi ad una appropriata intensità strumentale e ad una “fintamente” rassicurante intellettualizzazione retrospettiva delle parti strumentali, propone una alta manifestazione d’un veristico teatro, spaventevolmente nudo. Il suono, quello dell’Orchestra del San Carlo, fattosi suddito d’una magmatica ed eccitante verità teatrale, protende a farsi anche rumore spaventosamente antropomorfico e, poiché tale, caduco: appassionati schianti sonori, corposa materialità lacerata, a tratti, da ansiose inflessioni, snodate tra tempi serrati ed un “popolare” continuum sonoro. Un indirizzo interpretativo che si sposa perfettamente, facendo quasi “impressione”, con la regia curata da Daniele Finzi Pasca, con scene progettate da Hugo Gargiulo, con costumi ideati da Giovanna Buzzi e luci create dal regista e da Alexis Bowles. Una teatralità apparentemente “assoluta”, fattasi pura e sovrana artificiosità teatrale, lontana da una realtà fenomenica, pur essendo sottomessa ad inevitabili impegni scenici e rappresentativi. Immergendo la finzione scenica in un mondo spiritualmente sognante, fatto d’immagini oniriche ed allucinanti, destabilizza lo spettatore. Beninteso, è un elemento assolutamente positivo. Apparentemente “assoluta” perché tale teatralità, pur disdegnando precise coordinate spaziali e temporali, è comunque calata in una “realtà” (che sia effettivamente reale non c’è dato saperlo) tremendamente umana ed umanizzata, caratterizzata da una spaventevole freddezza e da torbide e deplorevoli passioni: il tutto ed il contrario di tutto, com’è la natura umana, dopotutto. Un mondo estraneo, circense, dominato dagli acrobati della Compagnia Finzi Pasca, coordinati magistralmente dalla coreografa Maria Bonzanigo. I loro funambolismi (accompagnati dall’Intermezzo, registrato su rullo Welte-Mignon, suonato al pianoforte dal compositore nel 1905 e riprodotto in sala in formato digitale) che hanno inframmezzato l’arcata drammatica dell’opera, poiché svoltisi prima della scena della Commedia, sempre però inseriti in regolate trovate teatrali, sono la trasposizione scenica delle allucinazioni d’un cerebro malato, quello del pietoso Canio. La finzione nella finzione poi, sviluppatasi sempre entro scene scarne e minimaliste, toccate da accecanti, a tratti, rarefatte luci, si svolge in un perimetro fatto da una larga e quadrangolare pozzanghera d’acqua: la fluida precarietà del teatro e della vita che “non son la stessa cosa” ma che, perlomeno questa volta, lo sono. La finzione nella finzione della compagnia del misero Pagliaccio si svolge entro i confini della pozzanghera ma, levatosi metaforicamente la maschera, Canio s’improvvisa freddamente spietato assassino solo fuori dal suo fluido perimetro. Il fatto che sia un mondo parossistico e tremendo lo testimonia anche il fatto che i paesani, spettatori della finzione dello spietato Pagliaccio, vestono tutti costumi da clown, caratterizzati da una cromatica eccentricità. Ottimo esito per la compagnia di canto. Il tenore Antonello Palombi (Canio/Pagliaccio) stupisce tutti per una naturale e credibile  destrezza scenica, supportata da uno strumento vocale parossisticamente espressivo. Il profilo vocale, caratterizzato da una pastosità timbrica, appare però appesantito soprattutto da un manierismo esasperato, volendosi forse attaccare ad una prassi interpretativa un po’ troppo “vecchio stampo” polverosa. Nonostante un fraseggio tendenzialemte sopra le righe, la voce risulta però solida, rotonda ed accortamente controllata in proiezione e in zone di passaggio. Ruolo risolto con sprezzante teatralità anche quello del soprano Maria José Siri (Nedda/Colombina). Con voce timbricamente ricca, unita a un fraseggio sensibile, l’emissione è scrupolosamente proiettata e sicura nel gestire agevolmente l’ampia tessitura del ruolo. Prova positiva  anche per il baritono Dimitris Tiliakos (Tonio/Taddeo). Voce rotondeggiante, solida, sempre dominata da una teatralità accortamente gestita. Teatralmente efficaci anche il tenore Francesco Pittari (Peppe/Arlecchino) con voce fresca ed una calda sonorità, ed il baritono Davide Luciano (Silvio), assai apprezzabile soprattutto per la voce stilisticamente assai centrata e sempre espressiva. Ottimo risulta anche l’apporto del coro, magistralmente preparato da Gea Garatti Ansini, vocalmente colto ed efficace. Bene anche il Coro di Voci Bianche del Teatro di San Carlo preparato da Stefania Rinaldi. Pieno successo di pubblico che ha calorosamente accolto questa nuova produzione del Massimo Napoletano. Foto Luciano Romano