Teatro alla Scala: “Un ballo in maschera” (cast alternativo)

Milano, Teatro alla Scala – Stagione d’Opera e Balletto 2012/2013
“UN BALLO IN MASCHERA”
Melodramma in tre atti, libretto di Antonio Somma.
Musica di Giuseppe Verdi
Riccardo  PIERO PRETTI
Renato  GABRIELE VIVIANI
Amelia  OKSANA DYKA
Ulrica  MARINA PRUDENSKAYA
Oscar  PATRIZIA CIOFI
Silvano  ALESSIO ARDUINI
Samuel  FERNANDO RADO
Tom  SIMON LIM
Un giudice  ANDRZEJ GLOWIENKA
Un servo d’Amelia  GIUSEPPE BELLANCA
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala.
Coro di voci bianche dell’Accademia Teatro alla Scala
Direttore Daniele Rustioni
Maestro del Coro Bruno Casoni
Regia Damiano Michieletto
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Luci Alessandro Carletti
Nuova produzione del Teatro alla Scala, in collaborazione con il Teatro Comunale di Bologna
Milano, 15 luglio 2013

Sembra tutto quanto predisposto per fare notizia e per provocare chiasso: un’opera di Verdi nell’anno del bicentenario, una nuova produzione del Teatro alla Scala, un regista giovane, baldanzoso, sempre divertito delle sue provocazioni e degli scandali che seguono, un luglio e una stagione un po’ languenti, e per questo bisognosi di pubblicità, una prima rumorosa, schiamazzi di pubblico inferocito, recensioni indignate sui grandi giornali quotidiani. Lo scenario di Un ballo in maschera in corso di rappresentazione a Milano non potrebbe essere più trito, stucchevole, fastidioso; il teatro musicale verdiano è oggi in Italia un carosello che alterna due sole possibilità: o spettacoli anonimi e mediocri, che non lasciano alcun segno, oppure provocazioni che attirano l’attenzione e fanno parlare di sé. Comunque sia, l’arte musicale pare sempre sconfitta, perché nel primo caso l’esecuzione non è degna di memoria e non costituisce un progresso nella conoscenza dell’autore e dell’opera, mentre nel secondo caso – ed è ancor più grave – della musica e delle voci non importa nulla, essendo tutti impegnati a condannare il regista e le sue dissacranti idee, oppure a giustificarne l’estro e la capacità di adattare al mondo contemporaneo una sceneggiatura vecchia di secoli.
Se contemporaneamente, sul «Corriere della Sera», sulla «Stampa», sulla «Repubblica» dell’11 luglio, compaiono resoconti di un recensore «profondamente indignato» (Paolo Isotta), interviste al regista, al sovrintendente della Scala, riproduzioni fotografiche dei volantini lanciati dal loggione la sera della prima, critici impegnati o in difese a oltranza dell’operato di Michieletto oppure nella dietrologia della protesta («poter contestare due sovrintendenti in un colpo solo», ipotizza Angelo Foletto), tutto questo è indice di arretratezza di fronte al teatro musicale stesso. «Il dibattito sulla legittimità di attualizzare l’opera non esiste in nessun altro paese del mondo, ed è un falso problema», sentenzia Stéphane Lissner; ma le sue parole dovrebbero essere contestualizzate meglio, e riportate al trattamento che il melodramma verdiano ha ricevuto nel corso della stagione scaligera 2012-2013. Inevitabilmente, a causa dell’anniversario, si tratta di una stagione speciale (e suddivisa in due grandi assi: quello verdiano e quello wagneriano). Sulla scorta di quanto già proposto (Nabucco, Macbeth, Oberto conte di San Bonifacio, Un ballo in maschera), è difficile ipotizzare che negli annali del teatro essa resti indimenticabile per Verdi (per Wagner invece lo sarà); ma la ragione è, ancora una volta, tutta italica, e si può sintetizzare in poche righe. Gli artisti italiani – in particolar modo i registi, ma anche i direttori d’orchestra – considerano Verdi un autore del tutto noto, connaturato alle loro competenze, da poter trattare con assoluta confidenzialità; questo è l’errore che conduce a scelte musicali e registiche che banalizzano o complicano, anziché risolvere, i problemi; oppure propongono un “ipertesto visivo” altro rispetto a quello verdiano, semplicemente perché manca una chiave di lettura adeguata e convincente. La musica appare facile e già interiorizzata, i libretti scritti in un lessico poetico astruso e manipolabile a piacimento (quanto si sono divertiti, in passato, anche illustri critici letterari con il Ballo in maschera del triestino Antonio Somma, che non era affatto uno sprovveduto quanto a ricerca della teatralità e dell’efficacia verbale; ma almeno, negli anni Cinquanta e Sessanta, si ironizzava sui libretti verdiani dopo averli analizzati; oggi invece non li si comprende, e basta così). I registi dunque apprestano, più che autentiche regie d’opera, sovrastrutture, quando non superfetazioni, rispetto al testo originario. A volte funzionano anche bene (come nel caso dell’Oberto secondo l’idea di Martone), altre volte sono un totale fallimento (come il Macbeth secondo l’idea di Barberio Corsetti).
Né Verdi né il pubblico in generale meritano di essere trattati così male, e quindi converrà scegliere un metodo alternativo rispetto a quello solito: si darà conto del Ballo scaligero a partire dalla seconda compagnia, con attenzione specifica all’esecuzione musicale e alla qualità delle voci impegnate; si parlerà dello spettacolo nel suo complesso e, in altro momento, anche della prima compagnia e della sua prestazione.
Daniele Rustioni dirige il Preludio con tempi e colori che paiono equilibrati, ma mantenendo una sorta di segmentazione dei temi, che non si integrano mai tra loro; non è scelta sbagliata, perché sul piano drammaturgico i vari personaggi – con i temi che li accompagnano – vanno verso la divaricazione totale. In generale, nei brani solistici il direttore è molto abile a valorizzare gli strumenti obbligati che caratterizzano il canto (e che in Un ballo in maschera rivestono funzione espressiva e cifra stilistica importante: il corno nella cabaletta di Renato «Alla vita che t’arride», il corno inglese nella grande scena di Amelia e le arpe nel duetto d’amore del II atto, i violoncelli dei garbati passi di danza settecenteschi). Rustioni è sempre attento a concertare in modo dinamico, duttile, ricco di colori e di sfumature, e fa emergere una tensione complessiva percepibile di scena in scena; l’ambizione di voler rimarcare tutto in modo chiaro si traduce però qualche volta in sonorità pesanti, soprattutto dovute alle percussioni: i timpani in particolare debordano sin dal concertato finale del I quadro, «Dunque, signori, aspettovi» (con i colpi di piatti interpolati secondo tradizione, comunque efficaci), si sentono un po’ troppo anche nei momenti d’insieme nell’antro di Ulrica, e raggiungono il culmine nella scena della congiura. Costante è invece l’equilibrio nei tempi, tendenti piuttosto all’accelerazione drammatica; forse un po’ troppo incalzante è il terzettino del II atto, «Odi tu come fremono cupi»: se l’accelerazione lo configura da un lato come conclusione drammatica del precedente duetto, e sortisce effetti ritmici molto interessanti, dall’altro lato penalizza fortemente la comprensibilità di quella “parola scenica” che per Verdi è fondamentale (e che proprio in questo piccolo ensemble raggiunge i risultati – mai bene apprezzati negli studi verdiani – dell’«orma dei passi spietati» e di altre arditezze retoriche nel testo di Somma).
Il migliore artista vocale è senza dubbio il tenore Piero Pretti, nella parte protagonistica di Riccardo; la voce è bella, fresca, omogenea, quasi sempre chiara ed elegante nell’emissione, nitida e ben sostenuta negli acuti; il suo difetto principale è la debolezza nelle note basse (percepibile sin dall’esordio con la sognante cavatina «La rivedrò nell’estasi», ma soprattutto nei difficilissimi intervalli dei couplets «Di’ tu se fedele / il flutto m’aspetta»). Sebbene sia sostenuta con piena correttezza anche nel corso del duetto d’amore del II atto, la parte di Riccardo si rivela forse un po’ troppo drammatica per il tipo vocale di Pretti, che senza dubbio è più lirico; e infatti il momento migliore della sua prestazione (che coincide con il numero solistico più convincente dell’intera recita) è la romanza «Ma se m’è forza perderti» del III atto: cantata con il giusto trasporto, vibrante, elegantissima nell’emissione, sarebbe perfetta se in alcune note del passaggio non si verificasse una piccola incrinatura nell’intonazione, che il cantante riesce subito a correggere, ma che di tanto in tanto si ripresenta (ed è difetto a cui un cantante dotato e intelligente come Pretti può porre rimedio al più presto).
Gabriele Viviani, il baritono che interpreta Renato (come già nella produzione torinese del giugno 2012), esordisce nel cantabile «Alla vita che t’arride» con esito appena discreto, ma non per colpa sua; la disposizione scenica dispersiva penalizza infatti la sua voce, che ha volume apprezzabile senza essere enorme, e lo induce a forzare nella cadenza. Ed è un vero peccato, perché Viviani ha voce pregevole, ed è capace di interpretare molto bene il suo personaggio. Oltre alla perfetta credibilità scenica nel II atto, il suo momento migliore è nella cabaletta «Eri tu che macchiavi quell’anima» del III, unitamente a tutta la scena della congiura, un terzetto affidato per lo più all’espressività del baritono: Viviani è bene intonato, fraseggia con gusto signorile, la sua emissione è corretta (a parte un lieve difetto nell’appoggiare il suono sulle note basse); l’acuto finale è al limite dell’intonazione, ma strappa comunque l’applauso al pubblico. Ottimo il Silvano di Alessio Arduini: unica voce maschile realmente ricca di armonici, saldissima, autorevole. A completare la rassegna delle parti virili, Samuel e Tom, rispettivamente Fernando Rado e Simon Lim, che forniscono una prova molto buona grazie alla voce ben timbrata e a una recitazione accurata. Se il fronte vocale maschile raggiunge nel complesso un buon livello, non altrettanto può dirsi di quello femminile. Oksana Dyka, nel ruolo di Amelia (già interpretato nel 2012 a Torino), offre la voce più corposa e autorevole di tutta la compagnia vocale, ma approfitta malamente di tale volume per cantare in modo scomposto, forzato, abrasivo rispetto agli altri, sin dal terzetto nell’antro di Ulrica, «Concedimi, o Signore». Nella grande scena iniziale del II atto, «Ecco l’orrido campo», il registro non è omogeneo, gli acuti tendono sempre al grido, risuonano fibrosi, sgradevoli, e le note basse sono malferme. Ma il difetto peggiore è la totale assenza di fraseggio, di espressività, di partecipazione emotiva: anche nel corso del duetto d’amore la Dyka risulta del tutto estranea alle parole che canta (e il personaggio dolente e combattuto di Amelia non è neppure sbozzato), per non parlare dell’aria «Morrò, ma prima in grazia» che apre il III atto, in cui il soprano non esprime per nulla il tono elegiaco della disperata supplica materna, ma si limita a forzare gli acuti in modo improvvido.
Che dire poi dell’Oscar di Patrizia Ciofi, se non che la voce della cantante appare irriconoscibile rispetto a qualche anno fa? Spenta, del tutto priva di armonici e di colori, è appena percepibile all’orecchio, in un fraseggio affaticato, che non lascia mai comprendere neppure una parola del libretto. Dell’enigmaticità vocale della Ciofi già si è scritto a proposito della recente Traviata torinese, e purtroppo quell’analisi si conferma con la prova scaligera; ma l’aggravante del Ballo in maschera è che nulla trapela del brio giovanile che dovrebbe caratterizzare ogni battuta di Oscar: l’emissione e lo stile sono piuttosto quelli languenti e spezzati di una Violetta gemebonda. Insieme all’Amelia distaccata e aggressiva della Dyka, insomma, un altro personaggio mancato, cui si aggiunge un terzo, ossia l’Ulrica di Marina Prudenskaya. Il pubblico della Scala l’ha appena ascoltata nei due cicli del Ring wagneriano come Waltraute e seconda Norna della Götterdämmerung, con esito apprezzabile. Ma altro è una parte wagneriana di mezzosoprano, altro è l’Ulrica verdiana, cui si richiede autentica voce di contralto oppure eccezionale estensione mezzosopranile; la Prudenskaya non possiede né l’una né l’altra, e la sua maga semplicemente non si sente, se non in qualche acuto. La scelta di questa artista è un errore clamoroso da parte della Scala, e l’esito vocale di un’Ulrica del genere è ben più scandaloso e grave delle provocazioni (effettive o presunte) dell’allestimento di Michieletto. Una regia può infatti essere discutibile o sgradevole, ma il regista sa in ogni caso di esserne il primo responsabile; nel caso di una selezione sbagliata dei cantanti, invece, la situazione è più complessa e imbarazzante, perché sembra che nessuno abbia ascoltato la Prudenskaya durante le prove dell’opera, e quindi che tutti abbiano avallato uno sbaglio davvero grossolano.
Per ambientare il I quadro, Michieletto trasforma la corte bostoniana di Riccardo in una sala-stampa di un rampante candidato politico alle elezioni del 2013, attorniato da vallette e segretarie (Oscar), body-guards (Renato), attivisti del partito (Silvano). La scena è invasa da sagome elettorali del protagonista, volantini pubblicitari, folla di clienti-sostenitori; e al di sopra di tutto campeggia l’enorme scritta al neon «RICCARDO / GLORIA INCORROTTA» (slogan da campagna elettorale che è puntuale citazione dall’enfatica battuta del protagonista: «Bello il poter non è, che de’ soggetti / le lacrime non terge, e ad incorrotta / gloria non mira», I ii). Se Riccardo è da intendersi come uomo politico paternalistico e alla continua ricerca del consenso popolare, come dalle sue melliflue parole appare, allora la scelta attualizzante di Michieletto è abbastanza coerente; però, la frastornante ressa di supporters, intervistatori, gorilla, distributori di santini elettorali, sostenitori di ogni sorta, offusca del tutto l’altro lato del personaggio, quello privato e affettivo, irriducibile al tipo del potente libertino perché molto più complesso e inibito da scrupoli morali: di tutto questo nella regia di Michieletto non è traccia. Chiavi risolutive uniche, la frivolezza o il grottesco; come nel II quadro, «l’abituro dell’indovina», in cui Ulrica è una santona in elegante tailleur bianco con gonna lunghissima, che risana paralitici e non vedenti con la sola imposizione delle mani. A questo punto grottesco e parodia sono apprezzabili soltanto da chi conosca già il contesto narrativo dell’opera, e sia in grado di comprendere la satira proposta; ma il trattamento irriverente, comico (per i modi troppo spicci e volgari di Ulrica) della malattia è un errore in cui il regista non avrebbe dovuto cadere, perché un conto è sbeffeggiare la credulità ingenua e popolana del coro, un altro è sfruttare l’argomento della guarigione miracolosa; risolvere in modo grottesco la tensione tra questi due opposti significa dimenticare che nell’opera Ulrica è davvero profetessa («tu, Sibilla, che tutto sai», la apostrofa Riccardo), e che il futuro davvero si realizza, nel III atto, come ora ella preconizza.
I costumi, a firma di Carla Teti, sono quelli tipici di uno spettacolo di Michieletto: abiti giovanili dai colori sgargianti, riuniti in un quadro policromo, quale si può scorgere nelle vie delle grandi città; il capolavoro è Silvano, con pantaloni militari, maglietta arancione e sneakers verde brillante. Il costume omologato alla moda casual – il regista lo sa bene – infastidisce ancor più di scenografia e recitazione gli spettatori tradizionalisti, che mai vestirebbero in tal modo né vorrebbero veder vestire a teatro, non riconoscendo né se stessi né i segni di alcuna tradizione; anche di qui, allora, un’ulteriore, facile provocazione. Alla fine del I atto si leva un applauso tiepido, venato da qualche sparuto fischio proveniente dall’alto; ma al termine dell’opera è un unico applauso per tutti i cantanti (che evitano prudentemente l’uscita isolata), mentre qualche rimbrotto è all’indirizzo del direttore, allorché si presenta sulla ribalta. Ma poi? Che ne è stato dell’orrido campo del II atto, della dimora di Renato, e soprattutto del ballo in maschera finale, scenario della tragedia ed eponimo del titolo verdiano? Occasione per parlarne ancora, la prova della prima compagnia vocale. Foto Brescia/Amisano © Teatro alla Scala