Niccolò Jommelli: a 300 anni dalla nascita

Niccolò Jommelli (Aversa, 10 settembre 1714 – Napoli, 25 agosto 1774)
Vogliamo dedicare i 300 anni dalla nascita di questo compositore che, nel nutrito dibattito letterario settecentesco sulle istanze del rinnovamento dell’ormai stanca opera seria, si presenta come una figura non particolarmente attenta ai segnali di cambiamento. Jommelli appare come un musicista “pratico”, abile professionista, assai più attento alla verifica costante del proprio mestiere (e anche degli altri) ma non animato  da astratti aneliti di riforma.  Le forme chiuse, infatti resteranno un capitolo fondamentale anche nelle sue partiture teatrali, nonostante la sua vasta esperienza maturata nei centri di cultura “riformata” come Vienna e Stoccarda. Jommelli  non si distaccò mai dal sentiero  dell’opera metastasiana, anche se cercò di modificare la retorica espressiva degli “affetti” barocchi rivestendo i suoi personaggi di passioni fatali, di amori infelici e rinunciatari e di una generale aulica grandezza. Le trasformazioni che lentamente egli apportò allo schema immutabile del recitatitivo secco-aria tripartita nacquero più da ragioni strettamente musicali che dal desiderio di maggiore verità espressiva. Anche in ambiente “riformato”, infatti, egli musicò libretti (ad esempio quelli di Mattia Verazi) senza operare cambiamenti, con tutta la serie di arie “di paragone” e cariche (quelle del Verazi) di “moralità” seicentesche che frastagliavano l’azione principale. Tuttavia nell’economia delle scene, per dare maggiore risalto a un’aria, Jommelli introdusse anche delle “cavatine”, che avevano il compito di esprimere dei sentimenti più semplici e affettuosi e con accompagnamenti molto melodici. Fu tuttavia la drammatizzazione  interna del pezzo chiuso il banco di prova dei suoi esperimenti: l’ormai sorpassato  e routiniero recitativo “secco” è sostituito sempre più spesso da quello accompagnato, sorretto da registri e timbri strumentali accuratamente selezionati per scolpire il personaggio nella sua dimensione eroica, e strutturato in modo da assecondare il variare degli affetti nella variazione agogica nel giro di poche battute. L’aria che segue si riorganizza in uno schema più libero ma rigorosamente logico, con con frequenti cambiamenti di ritmo e tonalità e con una più ricca orchestrazione (frutto dei contatti con l’orchestra di Mannheim e con la cultura strumentale più evoluta delle corti europee).
Il coro, acquisito dalla “Tragédie-lyrique” francese, diviene elemento di contrapposizione o di proiezione  delle passioni dei personaggi, infondendo all’insieme un’aura di fatale predestinazione cara all’ideale estetico di Jommelli. Anche la proporzione dei finali d’atto aumenta gradatamente sulla scia della coeva opera seria francese e dell’opera buffa italiana, e articolazioni polifoniche contrappuntistiche più complesse sostituiscono il tradizionale impianto omofonico. Nonostante la vastità della produzione e le importanti se per capillari trasformazioni nelle strutture tradizionali del melodramma barocco, l’opera di Jommelli attende ancora tuttora una più esatta valutazione in sede critica, che ne stabilisca la portata e ne individui le influenze.
“Armida abbandonata”
Rappresentata al Teatro di San Carlo Napoli il 30 maggio 1770, su libretto di Francesco Saverio De’ Rogati, un giovane allievo di Saverio Mattei (liberamente ispirato al celebre episodio della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso) è il primo titolo che segna il ritorno del compositore nella sua terra d’origine, dovuto anche in conseguenza  alle restrizioni imposte dalla Guerra dei Sette Anni.  Non è certo un ritorno facile perchè Jommelli si trovò ad affrontare e a combattere contro un ambiente musicale fortemente “retrogrado”, legato all’opera seria tradizionale, alla quale per altro, come già abbiamo detto, il compositore è comunque ancora legato. Jommelli si presenta invece come una perfetta sintesi tra estetica tedesca (che si esprime ad esempio nelle ampie introduzioni orchestrali alle arie) e lirismo italiano che, come abbiamo già detto si esprime in virtuosismi (che Jommelli non disdegna, visto che i primi interpreti dell’opera furono il castrato Giuseppe Aprile e il soprano Anna  De Amicis, acclamatissi virtuosi) ma anche in una attenta ricerca espressiva. Per tradurre le passioni che vivono Armida e Rinaldo, il compositore esplora i più disparati mezzi espressivi. Assai anomalo è chiudere l’atto II con un recitativo accompagnato, preceduto dall’aria (“Odio, furor, dispetto”), così come, nell’atto terzo (per altro brevissimo, quasi a volere concentrare al massimo l’epilogo drammatico) quando Armida scopre di essere stata abbandonata e la vediamo in preda d’angoscia profonda, lo stile vocale e strumentale sono estremamente “asciutti”, piegandosi allo stato emotivo del personaggio e alla situazione drammatica. L’opera, pur ottenendo un notevole successo, venne allo stesso tempo giudicata come troppo “ardita” e  il suo compositore troppo “difficile” per l’ambiente musicale napoletano. Ben diverso il giudizio dello storico inglese Charles Burney (che aveva conosciuto Jommelli a Napoli nel 1770) che giudicava i suoi lavori ricchi di una “scrittura naturalmente grave e solenne”, aggiungendo  che, il suo “magistero nel dominare l’Armonia conveniva perfettamente alla musica sacra” cosa che Jommelli fece, abbandonando il definitivamente il teatro.

 

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