“Norma” al Teatro Regio di Torino

Torino, Teatro Regio, Stagione d’opera e di balletto 2014-2015
The Best of Italian Opera
“NORMA”
Tragedia lirica in due atti su libretto di Felice Romani
Musica Vincenzo Bellini
Norma MARIA AGRESTA
Pollione ROBERTO ARONICA
Oroveso RICCARDO ZANELLATO
Adalgisa VERONICA SIMEONI
Flavio ANDREA GIOVANNINI
Clotilde SAMANTHA KORBEY
Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Roberto Abbado
Maestro del coro Claudio Fenoglio
Regia Alberto Fassini
Ripresa da Vittorio Borrelli
Scene e costumi William Orlandi
Luci Andrea Anfossi
Direttore dell’allestimento Saverio Santoliquido
Allestimento Teatro Regio in coproduzione con Opera Scene Europa (Roma)
Torino, 22 luglio 2015

Insieme a Bohème, Barbiere di Siviglia e Traviata, il Teatro Regio di Torino ha deciso di programmare anche quattro recite di Norma nell’ambito del proprio festival estivo The Best of Italian Opera (9-26 luglio), in occasione di Expo 2015. Se occorre attendere il bilancio finale per sapere quanti spettatori abbiano presenziato alle recite straordinarie, e soprattutto quale interesse nei visitatori internazionali abbia destato la rassegna torinese, certamente va detto che i melomani e gli appassionati del Piemonte hanno seguito con grande fedeltà le proposte del teatro, considerata anche la popolarità dei titoli. Per questa terza recita di Norma la platea del Regio non era gremita, ma affollata di un pubblico molto attento, partecipe, forse incline a rendere sempre omaggio a tutti gli interpreti che si avvicendano sul palcoscenico.
La gemma della serata è senza dubbio la direzione orchestrale di Roberto Abbado, perché la chiarezza della lettura direttoriale si riflette in un suono pulito che l’orchestra mantiene in ogni scena dell’opera. Nel valorizzare le dinamiche interne, Abbado rende netto l’alternarsi di marce e di elementi ballettistici, in mezzo ai quali si trova perfettamente a proprio agio. A volte si abbandona alle sonorità magniloquenti della partitura, e allora i cantanti sono un po’ in difficoltà nel pareggiare i volumi orchestrali. Quanto alla compagnia, la prestazione dei due interpreti principali sembra avere quale tratto comune il legame con la tradizione; soprano e tenore cantano infatti secondo un modello belcantista la cui applicazione appare oggi non del tutto plausibile: è un Bellini in cui le cabalette sono prive di ‘da capo’ (come quella di Norma del I atto), e dunque prive di variazioni e di abbellimenti virtuosistici; è un Bellini eseguito nella sola linea melodica principale, ma non nelle possibilità espressive e drammaturgiche della sua scrittura propriamente vocale. Maria Agresta è una Norma  corretta, dalla voce carezzevole, tendente a un timbro più brunito nelle note basse; essendo prediletta l’emissione in piano, le frasi sono quasi sempre prive di enfasi, e purtroppo la linea di canto finisce per essere quasi in tutto inespressiva; nel corso del I atto ha appena un guizzo di vitalità, nel terzetto finale, quando si rivolge sarcasticamente a Pollione. Nel II atto invece recitazione e fraseggio rendono conto in modo più puntuale della ricchezza drammatica della vicenda, ma la voce fa fatica a rispondere, appare meno docile quando le si richiede di manifestare l’emotività. Se «Casta diva» del I atto è eseguita con stile compassato, pur senza maniere, risuona più vivo il duetto del II atto con Adalgisa (nel cui ‘da capo’ sono offerte alcune piccole variazioni); a onor del vero, poi, nel duetto finale con Pollione invece di cadere in una imitazione di un modello che non è neppure il caso di nominare, la Agresta avrebbe potuto occuparsi maggiormente della messa in maschera della voce.
Roberto Aronica, cantante di scaltrita esperienza, vorrebbe cantare la parte di Pollione come un tenore d’altri tempi: il suo massimo impegno sembra profuso nell’arrotondare i suoni, ma questo serve a poco, considerato che il registro non è unitario, dizione e fraseggio sono poco apprezzabili, gli acuti tutti di fibra, privi di colore o di smalto luminoso. Egli potrebbe essere un interprete apprezzabile appunto se non abusasse della fibra vocale, con esiti piuttosto rozzi, che non convincono se si pensa alla personalità dell’insicuro, ma alla fine generoso, capitano romano.
L’Adalgisa di Veronica Simeoni è  buona; la linea di canto non è esente da certe piccole sprezzature negli acuti, ma il registro uniforme si apprezza ancora di più se si considerano la robustezza della cavata e la sicurezza nel resto dell’emissione. I momenti d’insieme vocale più apprezzabili sono d’altra parte i due duetti tra Norma e Adalgisa nel I e nel II atto.
L’Oroveso di Riccardo Zanellato è un personaggio vocalmente ben ritagliato, perché il cantante si impegna molto in dizione e porgere; peccato che gran parte delle sue energie siano impiegate al fine di sovrastare la massiccia orchestra di Abbado. Molto precisi il Flavio di Andrea Giovannini e la Clotilde di Samantha Korbey, mentre assolutamente impeccabile è il Coro del Teatro Regio, istruito da Claudio Fenoglio: maestoso, guerresco, atterrito, sdegnato; tutte le situazioni emotive che la massa vocale vive nel II atto sono realizzate alla perfezione (tanto che del grandioso «Guerra, guerra, le galliche selve», ben supportato da Abbado, si vorrebbe subito ascoltare il bis).
Lo spettacolo, risalente ormai al 2002, può anche essere definito “fuori moda”, obsoleto, eccessivamente tradizionale; esso è però adeguato a un festival che ambisce promuovere il grande repertorio italiano, lontano da ambizioni innovative e da letture cervellotiche. La scena si riassume nei movimenti di quinte sagomate di colore scuro, rappresentanti il bosco d’Irminsul e gli ambienti in cui l’opera si svolge; qualche gigantesco frammento “romano” incombe sull’agire dei personaggi (ma l’acefala rivisitazione dell’Augusto di Prima Porta visibile all’inizio si sarebbe potuta tralasciare); i costumi ricercano fantasie druidiche in maniera un po’ paludata (specie per la veggente Norma), mentre le tenui luci non si discostano mai dalla freddezza delle tinte. Tutto è, insomma, funzionale all’azione e permette certamente all’ascoltatore di concentrarsi sull’esecuzione musicale, anche se risulta un po’ statico, specialmente quando sono presenti grandi masse che colmano ogni metro del palcoscenico, secondo un gusto un po’ zeffirelliano. Si dice “oleografico”, in queste occasioni? Ma si dovrebbe avere il coraggio di parlare di fedeltà culturale al dettato (e in parte anche ai compiacimenti) del libretto. Il pubblico di Torino apprezza tutto quanto, come si è già detto, e in fin dei conti fa bene; se routine significa nel gergo delle esecuzioni teatrali buon andamento dell’esecuzione, in base a quello che la tradizione ha insegnato, allora questa Norma del Regio è un esempio di routine. Certo, si vorrebbe qualcosa di più nei movimenti dei personaggi, nella regia ripresa da Vittorio Borrelli, nell’espressività dei singoli interpreti; siccome lo spettacolo cresce progressivamente nel II atto, se ce ne fosse un III diventerebbe tutto straordinario. L’accorgersi che tutto si accomoda bene soltanto nel finale è una consolazione non decisiva; del resto è lo stesso Pollione a definire in questi termini Norma e il proprio rapporto con lei: «Ah! Troppo tardi t’ho conosciuta … / Sublime donna, io t’ho perduta …»  Foto Teatro Regio