«Nume custode e vindice / di questa sacra» Arena: ancora “Aida” a Verona

Verona, Fondazione Arena di Verona, Festival del Centenario 1913-2013
 “AIDA”
Opera in quattro atti. Libretto di Antonio Ghislanzoni
Musica di Giuseppe Verdi
Il Re d’Egitto  SERGEJ ARTAMONOV
Amneris, sua figlia  GIOVANNA CASOLLA
Aida, schiava etiope  DANIELA DESSÌ
Radamès, capitano delle guardie 
CARLO VENTRE
Ramfis, capo dei sacerdoti  MARCO SPOTTI
Amonasro, re d’Etiopia, padre di Aida  ALBERTO MASTROMARINO
Una sacerdotessa  ELENA ROSSI
Un messaggero  RICCARDO BOTTA
Coro, Orchestra e corpo di ballo dell’Arena di Verona
Direttore Omer Meir Wellber
Maestro del Coro Armando Tasso
Regia Carlus Padrissa e Àlex Ollé (La Fura dels Baus)
Scene Roland Olbeter
Costumi Chu Uroz
Assistente alla regia e coreografa Valentina Carrasco
Luci Paolo Mazzon
Verona, 3 agosto 2013 – ultima rappresentazione del nuovo allestimento

«I Romani costruirono l’Arena aspettando l’Aida», soleva dire Giovanni Zenatello, artefice della prima rappresentazione assoluta di un melodramma all’interno dello spazio veronese, nel 1913. Il Festival del Centenario s’incentra su una nuova produzione, appunto di Aida, affidata alla gestione scenica e registica della Fura dels Baus; e alla sua ultima replica lo spettacolo registra un tutto esaurito, con più di 13.500 presenze all’interno dell’Arena. Direttore d’orchestra è Omer Meir Wellber, che già condusse Aida alla Scala tra febbraio e marzo dello scorso anno con esito alquanto controverso. Rispetto a quella produzione la sua lettura dell’opera appare ora più equilibrata, più rispondente alle dinamiche interne, e soprattutto alla costante ricerca dei colori orchestrali adeguati a ciascun quadro; purtroppo, a tale ricerca coloristica, molto apprezzabile e proficua sul piano drammaturgico, non corrisponde analoga attenzione per le voci e per la concertazione; il soprano, per esempio, è totalmente in balìa di se stesso e delle sue difficoltà, e più volte tra fossa e palcoscenico si registra uno spiacevole scollamento.
Per quanto riguarda gli artisti vocali è d’obbligo prendere avvio proprio dalla protagonista dell’opera, Daniela Dessì, evidentemente in questo stadio della sua lunga e brillante carriera artistica si trova a doversi confrontare con se stessa e con una vocalità che la mette in seria difficoltà: la voce oscilla molto, l’emissione pare ridotta al minimo, tanto che alcune frasi modulate sulle note centrali neppure si percepiscono; le note basse sono completamente spoggiate, e tale mancanza di sostegno del fiato rende tutta la linea di canto discontinua, imprecisa, inadeguata al carattere di Aida. Si salva appena qualche mezza voce del registro medio-acuto, ma non basta a redimere un «Ritorna vincitor» piuttosto scialbo. Anziché nei momenti d’insieme, il soprano si sente più a suo agio in quelli solistici, tant’è vero che riesce a gestire abbastanza bene «O cieli azzurri… o dolci aure native» all’inizio del III atto (il do e e la chiusura dell’aria sono emessi con evidente fatica, e gli applausi del pubblico sono poco più che di cortesia). Nei duetti con Amonasro prima e con Radames poi è piuttosto in difficoltà, anche nel seguire le indicazioni musicali di primaria importanza.
Carlo Ventre, nel ruolo di Radames, oltre a poter vantare una carriera ormai ragguardevole, si presenta con la voce e lo stile del grande cantante; va detto subito che, insieme a Giovanna Casolla, è lui il vero protagonista della serata: non solo ha voce bella e generosa, ma si impegna anche per arrotondare l’emissione di ogni nota, con un effetto prezioso, che rimanda in parte alla tradizione tenorile italiana. A petto di tale felicità interpretativa, è un peccato che il cantante sia invece poco preciso nel rispetto delle indicazioni dinamiche dello spartito; sovente, anziché attenersi al testo, Ventre preferisce adattare la scrittura musicale alle proprie inclinazioni vocali. Dopo lo scoglio di «Celeste Aida, forma divina» il cantante si sente più tranquillo e canta meglio nel corso dei primi due atti; nel duetto del III, però, improvvisamente peggiora, non controlla bene l’emissione come in precedenza e sbaglia anche qualche parola. Prima dell’inizio del IV atto è infatti annunciata un’improvvisa indisposizione del tenore, che comunque intende condurre a compimento la recita. Nel duetto con Amneris la voce di Ventre accusa qualche sonorità di fibra, ma senza particolari difetti; è il momento in cui il direttore, per converso, dimostra più efficacemente la sua maturazione nello studio di Aida, con una resa rimarchevole di numerosi particolari strumentali (si conferma l’impressione che negli atti III e IV la vera voce protagonista sia quella dell’orchestra). Nel corso del duetto finale con Aida, da ultimo, Ventre sembra aver recuperato la voce del I atto, e conclude così l’opera con una prova ampiamente positiva.
Ma la voce più affascinante della compagnia è quella di Amneris: Giovanna Casolla si conferma interprete di notevole intelligenza, capace di suscitare nell’ascoltatore quelle emozioni che derivano dal timbro e dall’intensità del mezzosoprano (o meglio, del soprano – quale ella è – dotato di estensione vocale nella zona bassa del pentagramma e di capacità di sostenere anche i suoni più gravi). Pur non essendo una specialista del ruolo di Amneris, la Casolla rende frasi conclamate e incisive come «Trema, vil schiava! Spezza il tuo core…», «Venga or la schiava, / venga a rapirmi l’amor mio… se l’osa!», secondo la migliore tradizione interpretativa, con fraseggio e gusto molto convincenti, con voce ferma e omogenea. Emozionante il culmine della sua disperazione, con la corona tenuta a lungo nella maledizione scagliata sui sacerdoti («su voi / la vendetta del ciel scenderà», nel IV atto), che scatena l’entusiasmo di tutto il pubblico.
Alberto Mastromarino è un Amonasro corretto, assai pratico della parte, convincente soprattutto nella scena del trionfo. Nel duetto del III atto orienta tutta l’espressività sul declamato, anziché sul canto lirico, anche quando la scrittura verdiana richiederebbe quest’ultimo; numerosi acuti, inoltre, risultano assai stentati. Molto buoni entrambi i bassi, Sergej Artamonov nel ruolo del Re e Marco Spotti nella parte di Ramfis; si apprezzano anche perché le loro voci sono ben differenziate: quella di Spotti è più ricca di armonici, anche se negli acuti perde un po’ l’omogeneità del timbro; quella di Artamonov è meno caratterizzata ma più ferma. Apprezzabili per correttezza il messaggero di Riccardo Botta e la sacerdotessa di Elena Rossi. La voce dei cantanti è soggetta alle intemperanze, alle debolezze, alle fragilità estemporanee di ogni serata; insomma tutto si può bilanciare, riequilibrare, correggere. L’impostazione complessiva di uno spettacolo invece no: o funziona ed è plausibile, oppure non funziona, e allora la condanna è severa. Ma il pubblico che si limitasse a bocciare i registi catalani Carlus Padrissa e Àlex Ollé per sole questioni estetiche e soggettive sbaglierebbe; non ci stancheremo di ripetere che la critica di uno spettacolo così complesso come risulta oggi qualsiasi melodramma ottocentesco non deve ridursi al mero giudizio soggettivo (e privo di argomentazioni), né all’elenco delle bizzarrie, né può cercare appoggio nel ricorso alla tradizione; nel XXI secolo non si può pensare che un allestimento concepito secondo criteri tradizionali abbia un fondamento teoretico qualitativamente superiore rispetto a un allestimento post-moderno. Il problema è un altro, e assai più grave.
Dell’inutilmente complicato e farraginoso impianto con cui La Fura dels Baus ha inteso rinnovare la centenaria tradizione dell’Aida areniana, si può sintetizzare l’unica idea propriamente nuova: che l’imponente struttura architettonica costruita per il trionfo si trasformi in maniera graduale, abbassandosi pian piano, nella copertura della tomba di Aida e Radames. Ritenere che gli elementi costitutivi del trionfo coincidano con il germe della morte e del lutto finali è sicuramente interessante; ma, come al solito, gli artisti della Fura scelgono le modalità più arzigogolate e inconcludenti per realizzare tale idea (ossia ambientando tutta l’opera in una centrale solare in costruzione, dichiaratamente ispirata a quella «di Odeillo a Font Romeu, sul versante francese dei Pirenei», come si apprende dall’intervista ai registi nel programma di sala. Curioso notare che il Tannhäuser in scena al Festival di Bayreuth di quest’anno si svolge all’interno di una centrale atomica: ne dà conto un indignato Paolo Isotta sul «Corriere della Sera» del 7 agosto). Tutto il resto è un parallelo del tradizionale trovarobato aidiano: animali meccanici in forma di elefanti, cammelli, coccodrilli, scarabei, teste di Anubi in sovrabbondanza, fuoco e fiamme sugli spalti, acqua nilotica e imbarcazione di rito per il III atto (si veda la dettagliata recensione di Tommaso Benciolini).
La concezione teatrale della Fura è basata su un’esigenza antichissima, tipica del teatro barocco: stupire gli spettatori con macchinari in azione, che progressivamente costruiscono la scena stessa o ne determinano lo sviluppo; quelle ‘macchine di teatro’ che definiscono un ‘teatro di macchine’, coadiuvato dalle più moderne tecnologie. Il problema è che tale tecnologia, quasi sempre, fallisce, proprio perché troppo “macchinosa”: nelle varie recite areniane il gigantesco pannello formato da blocchi a specchio, ossia l’eliostato concavo che dovrebbe essere eretto nel corso del trionfo, si incaglia per problemi di assemblaggio, e resta incompiuto. La realizzazione è completata durante l’intervallo, ma l’intento registico di partenza è chiaramente disatteso. Il problema più grave del difetto tecnologico, comunque, non è la mancata estetica scenografica, quanto piuttosto il disturbo: nel corso dei vari tentativi di assemblaggio in fieri il pubblico areniano, anziché seguire la musica e il canto – lo spettacolo musicale che, fino a prova contraria, dovrebbe essere il più importante – è del tutto distratto dallo spettacolo tecnologico (e non ne vale davvero la pena, considerato il suo naufragio). Tutti si domandano (anche ad alta voce): «Ce la fanno? Sarà la volta buona? Riusciranno a completarlo? È già il terzo tentativo di congiungere quei due blocchi … Ma le gru funzionano? Gli specchi collimano?», e via blaterando. Per non parlare del rumore provocato dagli argani e dai motori, che danneggia ulteriormente l’esecuzione musicale. Con il proposito di rinnovare e di stupire, la Fura dels Baus torna indietro di secoli nell’esercizio teatrale, e per di più rivela una completa dipendenza dalla tecnologia, come se essa soltanto rivestisse l’unica possibilità di sopravvivenza del teatro contemporaneo (che direbbe in proposito il filosofo Emanuele Severino?). E dispiace che quella della Fura non sia una tecnologia contemplata con occhio critico e scettico; anzi, traspare una fiducia incrollabile nei confronti della tecnica, presa decisamente troppo sul serio; e più è venerata, più tradisce al momento in cui dovrebbe épater les bourgeois.
Eppure l’allestimento si apriva con i migliori auspici, poiché nel corso del I atto lo spazio scenico vuoto sembrava soddisfare un’antica convinzione espressa da Mario Medici e raccolta da Gianfranco de Bosio: «Solo con una scenografia “casta”, essenziale, solo con un uso che tenga conto della funzione dell’anfiteatro si potrà raggiungere una vera comunione fra pubblico ed evento artistico». Anziché casta ed essenziale la scenografia diventa ben presto grottesca, ipertrofica e smodata; quanto alla comunione tra pubblico ed evento artistico, la strada è tutta da percorrere, considerata la gratuità delle trovate secondarie e l’autoreferenziale compiacimento nell’accumulo di simboli antichi e di commistioni con il post-moderno. Come se rimescolare disordinatamente le carte significasse saper “rinnovare” la messa in scena del melodramma verdiano. Foto Ennevi per Fondazione Arena