Opera di Firenze, Cortile di Palazzo Pitti: “La Traviata”

Cortile di Palazzo Pitti – Opera di Firenze Stagione estiva 2016
“LA TRAVIATA”
Opera in tre atti di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta FRANCESCA DOTTO
Alfredo Germont MATTEO LIPPI
Giorgio Germont SIMONE DEL SAVIO
Gastone PATRICK KABONGO MUBENGA
Flora ANA VICTORIA PITTS
Barone Douphol BYONGICK CHO
Marchese d’Obigny METTEO LOI
Dottor Grenvil PAVLO BALAKIN
Annina EUNHEE KIM
Giuseppe LEONARDO MELANI
Un domestico di Flora NICOLÒ AYROLDI
Un commissionario NICOLA LISANTI
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Fabrizio Maria Carminati
Maestro del Coro Lorenzo Fratini
Regia Alfredo Corno
Scene Angelo Sala
Costumi Alfredo Como e Angelo Sala
Luci Alesandro Tutini
Firenze, 12 luglio 2016
La Traviata
è il terzo e ultimo titolo della stagione estiva dell’Opera di Firenze, andato in scena all’aperto nello spazio meraviglioso, ma teatralmente non facilissimo, del cortile di Palazzo Pitti. Anche in questo caso si tratta di una delle Opere più amate, conosciute e rappresentate, in una scelta che prosegue coerente: quella di offrire una stagione composta di capolavori assolutamente popolari, in allestimenti che si pongono l’obiettivo di affrontarli con una certa dose di freschezza e novità. L’operazione in questo caso è fondamentalmente riuscita; lo spettacolo è interessante, logico, con momenti più felici, alcuni anche commoventi, altri meno risolti, ma nel complesso Alfredo Corno e Angelo Sala, artefici di regia, scene e costumi, hanno trovato una soluzione inedita ma rispettosa e perlopiù credibile, una messa in scena intelligente e di bell’impatto visivo. L’azione si svolge negli anni ’50, nella dolce vita romana, proprio nell’ambiente cinematografico di dive, registi, stelline e paparazzi, con alcune scene addirittura ambientate nel mitico Teatro 5 di Cinecittà, il teatro di posa in cui Fellini amava costruire le ambientazioni oniriche e surreali dei suoi film; proprio il cinema di Fellini aleggia di continuo e i suoi personaggi fanno capolino, perfettamente riconoscibili, assorbendo le vicende di Violetta e Alfredo nei loro set, tanto che quasi ci si stupisce che l’uomo con il megafono che dà l’azione e lo stop non abbia il cappello, la sciarpa e le sembianze del grande Federico. Così nel primo atto, si gira una scena tra i tavoli dei caffè e la fontana di Trevi ricostruiti nel Teatro 5. Violetta impersona Anita Ekberg con parrucca bionda e abito nero; rimasta sola in scena a meditare sullo “strano” amore che sta nascendo in lei, ne replica il famoso bagno nella fontana, per esigenze sceniche, asciutta. Peccato, perché la serata torrida avrebbe reso inoffensivo, se non gradevole, qualche spruzzo d’acqua. Il Marchese d’Obigny è il regista, Gastone è un paparazzo, Alfredo è un altro attore della troupe, che amoreggia con Violetta, prima per esigenze di copione, poi, terminata la ripresa, la soccorre e la corteggia fuori dalla finzione cinematografica. Nel secondo atto si rientra momentaneamente nella tradizione; siamo in casa di Violetta, e, a parte lo stile dei costumi e dei mobili, tutto rispetta alla lettera il libretto; è qui, infatti, che può lasciare un po’ perplessi l’intervento di papà Germont, così ostile al fidanzamento del figlio. Che cosa c’è di sconveniente o peccaminoso se un giovane attore fa coppia con una collega e si stabilisce nella ricca e moderna casa di lei, frequentata da paparazzi e cineasti? La sorellina di Alfredo “pura siccome un angelo” e il suo promesso sposo, che sono due ragazzi di provincia, non potranno che essere entusiasti di avere come parenti due star del cinema, dal momento che siamo negli anni ’50! Il modo in cui viene risolta la festa a casa di Flora, invece, interpreta più liberamente il testo, ma è convincente, ricco di invenzioni suggestive e molto appagante per l’occhio. Siamo nuovamente a Cinecittà, si festeggia il Carnevale e il Teatro 5 è invaso dai personaggi felliniani: le figure clownesche presenti in tante pellicole, da La strada a 8 e ½, gli alti prelati di Roma, i seminaristi e i monsignori di Boccaccio ’70, danzatori provenienti da Satyricon, signore procaci e scollate come la Gradisca e altri che mi sono sfuggiti o che dimentico, in una folla coloratissima nella quale spiccano quattro mature signore in piume e lustrini che ballano una buffa coreografia sulle note del coro delle zingarelle insieme ad una ballerina ancora più goffa, in realtà un omaccione barbuto travestito. In mezzo a tutte queste comparse e generici in costume si consuma l’incontro tra Violetta e Alfredo e la scena della borsa, con l’invettiva e la sfida a duello. Particolarmente poetico, grazie anche alla suggestione data dalle luci di Alessandro Tutini, è il momento in cui Gelsomina e il “Matto”, esprimendo nelle movenze il loro candore fanciullesco si accostano a Violetta, accasciata a terra nel momento della massima disperazione, e cercano di confortarla accarezzandola e sorreggendola.  L’ultimo atto si svolge in un’infermeria o Guardia Medica in cui Violetta è stata ricoverata con la sola compagnia di Annina, che, inspiegabilmente, da segretaria o assistente, si è trasformata in una suora cappellona; il dottor Grenvil è un medico che lavora nella struttura; Alfredo e suo padre giungono al capezzale di Violetta direttamente dai bagordi notturni: Alfredo è in smoking con il papillon slacciato ancora al collo, papà Germont ha addirittura una trombetta di cartone nella tasca della giacca; evidentemente la poveretta non è il primo dei pensieri nemmeno di “quanti ha cari al mondo”. Il solito Gastone-paparazzo si aggira nella stanza e tenta di scattare una foto a Violetta che ha appena esalato l’ultimo respiro, scacciato da Annina-suora. Non convincono in una sala di pronto soccorso un’ammalata e una suora infermiera che si comportano come se fossero a casa loro e lascia un po’ perplessi il sospetto di uno scarso trasporto di Alfredo nei confronti di Violetta; in ogni caso le dinamiche interpersonali e lo squallore del luogo testimoniano la scelta di sottolineare fortemente la solitudine desolata e il gelo che circondano il tramonto di Violetta in un finale marcatamente tragico, quasi brutale.
Si trova su questo in sintonia la direzione di Fabrizio Maria Carminati: anche lui decide di far prevalere una visione tragica e brutale, senza conforto, quasi sbrigativa nel correre verso l’epilogo tragico. È soltanto una delle possibili letture, non certo l’unica, ma appare consapevolmente scelta e poi coerentemente perseguita. I tempi sono rapidi e soprattutto rigidi, quasi nessuno dei consueti rallentando è mantenuto: è un fraseggio secco dal quale sono bandite l’affettuosità e la tenerezza, persino “Parigi o cara” è frettoloso, direi ‘di circostanza’, dal momento che entrambi sanno benissimo che non ci sarà alcun futuro da condividere. Anche il suono setoso e lucido dell’Orchestra del Maggio, al suo solito eccellente livello, è come svuotato, reso più pallido e fragile, come se condividesse il fatal morbo con Violetta. Nel cast vocale si segnala l’ottima protagonista di Francesca Dotto, dotata di uno strumento lirico leggero non particolarmente flebile, anzi dotato di un certo corpo e di una buona proiezione. Il timbro è bello e la gestione è già esperta, nonostante la giovane età; particolarmente notevole è il controllo dinamico, la capacità di rinforzare e smorzare, anche in zona acuta, fino a pianissimi impalpabili e trasparenti; si disimpegna bene nelle agilità del primo atto, puntuale all’appuntamento con i molti do e re bemolle, conclude con la tradizionale puntatura al mi bemolle, facile e sicura. Il suo registro centrale non è amplissimo, ma è sufficientemente sonoro per non essere coperto dall’orchestra. Certi momenti restano nella memoria come “Dite alla giovine” e “Alfredo, Alfredo”, per l’esecuzione vocale – una lamina di suono purissima e luminosa – e per la contenuta partecipazione emotiva. Il tenore Matteo Lippi, Alfredo, ha poche sfumature e chiaroscuri, poco abbandono, immagino in accordo con la visione direttoriale e registica; ha uno strumento di medio peso di buon timbro e sonorità; purtroppo la sua emissione è fastidiosamente nasale in tutta la zona centrale, a cavallo del passaggio; peccato perché il materiale c’è. La cabaletta, ad esempio, benché affrontata senza da capo e senza puntatura di tradizione, è agile e sciolta, i la naturali non sono male e il si bemolle ancora meglio. Non molto rilievo ha invece la scena della borsa, forse anche a causa del tempo strettissimo che non permette di dare la minima enfasi alle frasi. Buono strumento per timbro e sonorità possiede anche il baritono Simone Del Savio, Germont padre, anche lui mortificato o quanto meno limitato nell’espressività dall’asciuttezza del fraseggio e dalla stringatezza dei tempi. Ha un bel legato, è adeguatamente nobile, canta con varietà dinamica; offre nel complesso una buona prestazione, in virtù della quale gli si perdonano due o tre acuti fibrosi. Da un alto livello generale sono caratterizzate le prestazioni dei molti comprimari tra i quali segnalo la Flora spigliatissima e frizzante di Ana Victoria Pitts e il Gastone ben cantato di Patrick Kabongo Mubenga. Più di una menzione meriterebbe anche l’Annina di Eunhee Kim. Assolutamente impagabile è l’apporto del Coro del Maggio Musicale Fiorentino, impegnato a fondo, anche scenicamente: a fianco della consueta bellezza e compattezza di suono e alla precisione degli interventi, si rivela un insieme di meravigliosi professionisti anche nella recitazione; proprio dal coro sono siglati i momenti musicalmente più notevoli e visivamente più potenti, tra i quali, indimenticabile, tutta la festa del secondo atto, tanto nel suo aspetto frivolo, quanto in quello tragico. Tutti i solisti, Orchestra, Coro e Direttore, in particolare, sono stati calorosamente festeggiati dal pubblico, che, per l’occasione, registrava la presenza sorridente e luminosa del grande soprano Jessica Pratt, uno dei nomi più affermati della sua generazione, che in questi anni sta consolidando un importante rapporto con il teatro dell’Opera di Firenze. Foto Simone Donati