Ricordando Arrigo Boito (1842 – 1918) a 180 anni dalla nascita “Nerone” (1924)

In una lettera del 19 aprile 1862 indirizzata al fratello Camillo che, pubblicata da Gaetano Cesari sul «Secolo XX» del mese di luglio del 1918, è stata ritenuta per molto tempo la prima lettera conosciuta di Boito, è contenuto il primo riferimento al progetto di comporre il Nerone:
“Io qui, giacché bisogna cascare sempre in quella tediosa persona prma, me la passo alla moda di Gian Jacopo, e fantastico de’ mostruosi lavori nel cervello. E, in questo momento, per farla ridere, sono sotto l’influsso magnetico di Tacito; e medito un gran melodramma, che sarà battezzato con il terribile nome, Nerone”.
Per quanto sia stato messo in discussione il suo valore di documento da Piero Nardi, il primo biografo di Boito, questa lettera costituisce, tuttavia, la testimonianza di un interesse per il Nerone risalente ad un periodo precedente alla composizione dello stesso Mefistofele. Nerone, però, dovette attendere ben oltre 56 anni per vedere la luce, dal momento che quest’opera, seconda ed ultima di Boito, lasciata incompiuta dal suo autore per l’avvenuta morte e completata da Antonio Smareglia e Vincenzo Tommasini, fu rappresentata postuma il primo maggio 1924 alla Scala sotto la direzione di Arturo Toscanini con Aureliano Pertile (Nerone), Marcel Journet (Simon Mago), Carlo Galeffi (Fanuèl), Rosa Raisa (Asteria), Luisa Bertana (Rubria), Ezio Pinza (Tigellino), Giuseppe Nessi (Gobrias), riscuotendo un grande successo che, tuttavia, non le consentì di rimanere in repertorio. Boito vi aveva lavorato saltuariamente anche perché preso dalla bruciante collaborazione con Giuseppe Verdi, al quale, dietro l’ispirazione di Giulio Ricordi che caldeggiava il loro incontro artistico, aveva offerto anche il libretto di Nerone perché il compositore di Busseto lo mettesse in musica. Secondo il porogetto di Boito, l’opera, che oggi è conosciuta in 4 atti, avrebbe dovuto comprenderne un quinto in cui Nerone, mentre recita l’Oreste, ha un crollo psicologico in seguito all’apparizione dello spettro di Agrippina; in tal modo sarebbe ritornato, dal punto di vista tematico, alla scena iniziale in cui egli cerca di placare le furie materne.

Atto primo. È notte fonda e la luce della luna riesce a stento, attraverso le nubi, a diffondere i suoi pallidi raggi lungo la via Appia sul cui lato destro si notano alcune tombe. Simon Mago è intento a scavare mentre Tigellino, come se fosse di vedetta, guarda nella direzione della città di Albano; da zone lontane dell’immensa campagna giungono le note di canti frammisti agli appelli dei soldati di guardia agli acquedotti, i quali scambievolmente annunciano l’inizio della terza vigilia. I canti lontani cessano sopraffatti da voci lugubri e da un grido funesto che associa il nome di Nerone, matricida, a quelllo di Oreste che, per vendicare il padre Agamennone, aveva ucciso la madre Clitemnestra. Nerone, che giunge proprio in quel momento in preda al terrore, indicando con il dito il luogo in cui, a suo dire, gli era apparsa l’Erinni, invoca l’aiuto di Simon Mago e provvede a seppellire l’urna funeraria contenente le ceneri della madre. Mentre sta ancora compiendo questo gesto, vede riapparire la terribile figura di quella che egli crede un’Erinni e, in prede al panico, fugge, seguito da Tigellino, mentre Simon Mago, rimasto nel cimitero, riesce ad afferrare la figura femminile apparsa poco prima; si tratta di una donna, Asteria, così follemente innamorata di Nerone da considerarlo quasi un nume, per il quale si dichiara pronta a sacrificare la stessa vita. All’improvviso apparire di un gruppo di persone che inneggiano a Giunone, i due si separano e, mentre Simon Mago sparisce in un sotterraneo, Asteria si distende sulla tomba di recente costruzioine quando, proveniente da Roma, si avvicina una donna che sosta in preghiera presso l’ultimo tumulo funerario; è Rubria la quale, accorgendosi della presenza di Asteria, la invita ad unirsi alla sua preghiera, ricenvendo la risposta che il nume da lei adorato è un altro. Sparita Asteria, Rubria è raggiunta dal suo innamorato Fanuèl al quale sta per confessare un suo peccato, quando riappare dal sotterraneo Simon Mago. I due giovani pensano che egli abbia scoperto il sotterraneo utilizzato dai loro compagni di fede per cui Rubria va ad avvisare quelli che si trovano a Roma, mentre Fanuèl decide di rimanere per non abbandonare coloro che pensa siano stati scoperti. Simon Mago, credendo che il cristiano Fanuèl sia in possesso delle arti magiche che gli derivano dalla sua fede religiosa, gli propone di acquistarle dietro il compenso di una notevole quantità d’oro, ma il giovane, lanciando contro il mago un feroce anatema, si allontana verso Roma. Intanto da una strada di campagna ritornano Tigellino e Nerone che manifesta il desiderio di andare lontano da Roma perché ha troppa paura del popolo e dei cavalieri, ma le sue paure vengono fugate, quando un’immensa folla sopraggiunge e lo acclama come un trionfatore facondogli piovere intorno fiori, ghirlande e fronde di palma.
Atto secondo. In un tempio davanti a una grande moltidudine di fedeli, Simon Mago con un calice in mano contenente sangue che egli versa su un braciere, fa sprigionare una nube di fumo che meraviglia gli astanti i quali gridano al miracolo. Conclusa la prima parte della cerimonia rituale, nelle cella del tempio rimangono Simon Mago e Asteria, alla quale l’uomo spiega che Nerone le si rivolgerà come supplice grazie al modo sapiente in cui ha organizzato il loro incontro; la fa, quindi, nascondere in un angolo del sacrario. In attesa di Nerone, Simon Mago spiega ai suoi collaboratori il suo progetto ambizioso su Nerone dal momento che egli spera, nella seconda parte della cerimonia rituale, di riuscire a sottomettere l’imperatore alla volontà di Asteria sua schiava. Poco dopo giunge Nerone il quale, dopo aver incaricato Terpnos di seguirlo da solo portando una tazza e una piccola fiala d’oro, procede verso la parte centrale della cella, dove, rivolto verso la tenda chiusa del sacrario, beve il contenuto della tazza. L’imperatore è, poi, autorizzato da Simon Mago a varcare la soglia del sacrario fino ai piedi della gradinata dove vede riflessa in uno specchio, presso l’altare, la maestosa figura di Asteria, alla cui vista, atterrito, si genuflette implorando quella che ritiene la dea della notte e dei terrori di concedergli la pace dell’anima dopo l’orribile delitto perpetrato. Nerone, ancora in atteggiamento di adorazione, dichiara ad Asteria tutto il suo amore e, consapevole di commettere un delitto ancor più grave, avendo l’ardire di amare una dea, esprime il desiderio di poter morire, ma solo dopo che la terribile “dea” si sarà degnata di dargli sulle labbra un bacio d’amore e morte. Quando le tenue luce del cielo si spegne e il sacrario piomba nell’oscurità, Asteria si siede accanto all’imperatore e lo bacia intensamente, ma grande è la meraviglia di Nerone quando si accorge di avere accanto a sé una donna e non la terribile divinità. In preda ad un’ira furibonda e insostenibile egli, allora, afferrata una mazza, distrugge tutto ciò che gli viene a tiro compreso il suo stesso simulacro e si spinge fino al punto di introdurre un cero acceso nella bocca dell’oracolo, dietro il quale, protetto da una grande lastra, si trovava Dositèo, il cui compito consisteva nell’emettere i responsi oracolari; egli, avvolto dalle fiamme, va incontro ad un orribile fine. Nei confronti di Asteria e di Simon Mago Nerone pronuncia una terribile sentenza di morte; il primo è condannato a morire nel circo nel giorno delle Lucarie, dal momento che aveva fama di sapersi librare in volo, mentre Asteria ad essere gettata viva in un covo di serpi. Completata la sua opera di distruzione e morte, Nerone afferra una cetra e inizia a cantare.
Atto terzo. In un orto frequentato dai cristiani, Fanuèl ferma l’attenzione dei presenti sul Discorso della montagna e sulle singole beatitudini, mentre le donne rispondono come se stessero recitando una preghiera rituale. La serenità della scena viene interrotta dall’arrivo di Asteria che, vestita di nero, mette in fuga tutti tranne Fanuèl e Rubria che la sorregge affettuosamente e l’aiuta a sedersi presso una fonte. La donna, ferita e sanguinante, riconosce in Rubria la soave fanciulla che sulla via Appia l’aveva invitata ad unirsi alla sua preghiera e le chiede di  essere soccorsa e dissetata. Asteria, dopo aver bevuto, racconta come era riuscita a fuggire dalla fossa delle vipere, non prima di essere stata ferita gravemente dai morsi di quei terribili rettili e invita Fanuèl e Rubria a fuggire insieme agli altri cristiani perché Simon Mago, il loro irriducibile nemico, è già a conoscenza del luogo in cui si riuniscono e attende il momento propizio per farli arrestare. Mentre Asteria si allontana rapidamente, Rubria, consapevole del pericolo che incombe soprattutto su Fanuèl, lo prega di mettersi in salvo, ma egli le risponde che prima vuole conoscere la colpa di cui lei si era macchiata, come un giorno gli aveva confidato. In effetti Fanuèl non conosce né il nome della donna né la ragione per cui ella abbandoni il gruppo dei cristiani prima della fine della preghiera. La loro conversazione viene interrotta da una voce, presumibilmente di un mendicante, che, da un punto imprecisato del folto oliveto, chiede di essere aiutato in quanto cieco, ma Rubria, intuendo il pericolo, suggerisce a Fanuèl di non dargli ascolto. Il giovane insiste ancora, attanagliato dai dubbi sulla presunta colpa da confessare, chiedendole se essa non abbia la sua causa in un sentimento d’amore, questa volta la fanciulla risponde che la causa è proprio un sentimento di immenso amore, ponendo fine, in tal modo, alla loro conversazione. Fanuèl si avvicina al cieco e, notando anche Simon Mago, chiede il motivo della loro presenza in quel luogo caro ai cristiani; Simon Mago gli rinnova, in atteggiamento supplichevole  e promettendo ricchi doni, la sua richesta di ricevere poteri taumaturgici posseduti dal giovane, ma lo minaccia di consegnarlo ai pretoriani  nell’ipotesi che, ancora una volta, essa non fosse soddisfatta. La richiesta provoca la furibonda reazione del giovane il quale, lanciando all’indirizzo dell’uomo epiteti offensivi, cerca di calpestarlo come se si trattasse di un rettile. È pronta anche la risposta di Simon Mago che ordina ai pretoriani, in agguato nella zona, di arrestare il giovane, in soccorso del quale accorrono gli altri cristiani che cercano di aggredire il falso mendicante il quale riesce a salvarsi grazie all’intervento dello stesso Fanuèl che calma i suoi compagni di fede ricordando loro che il Signore aveva comandato, dandone l’esempio, di non resistere ai malvagi; quindi li benedice e si allontana con i pretoriani, raccomandando alle donne cristiane di elevare a Dio un canto religioso al quale egli sarebbe associato fino a quando la lontananza non avesse reso ciò impossibile. Nell’orto rimane solo Rubria, oppressa dal dolore, restando in ascolto del canto dell’uomo, da lei amato, che invita i cristiani ad affrontare serenamente e con gioia il martirio per testimoniare la loro fede in Dio. All’ultima parola, “amore”, che riesce a percepire nel silenzio, la giovane, angosciata e affranta, come se avesse esaurito ogni forma di energia, cade in ginocchio.
Atto quarto. Nel Circo Massimo fervono i preparativi per i giochi imminenti tra i quali si svolgerà il cosiddetto supplizio di Dirce, previsto per le donne cristiane che, denudate, legate su tori inferociti e inseguite da cani da caccia, sarebbero state bersagliate da un certo numero di sagittari con il lancio di mortifere saette. Nerone esaudisce la richiesta della folla che reclama a gran voce il supplizio di Dirce e così vengono introdotte le donne cristiane, precedute da Fanuèl e accompagnate da feroci bestiari impegnati a percuotere quelle che mostravano una certa riluttanza a procedere speditamente verso il supplizio. Improvvisamente fa la sua comparsa una vestale, tutta vestita di bianco e con il volto coperto dalla caratteristica infula delle sacerdotesse, preceduta da un littore con fasci abbassati e seguita da un flamine. La vestale, facendo segno con la mano verso Fanuèl e il corteo delle fanciulle, fa chiaramente intendere, in nome della dea Vesta, che quel giovane e quelle fanciulle devono essere risparmiate. Già qualcuno, preso da religioso terrore, reclama la salvezza per le fanciulle cristiane, ma Nerone le chiede di scoprire il suo volto; Simon Mago, presente perché destinato, a sua volta, a morire nel circo imitando il volo di Icaro, si avventa sulla vestale, invano ostacolato dal littore, scoprendo il volto della sacerdotessa. La folla grida al sacrilegio e Nerone, riconoscendo Rubria, la condanna a morire insieme alle donne cristiane. Mentre i giochi sono ancora in corso, si osservano le prime lingue di fuoco che si levano da alcuni edifici romani; sono le prime avvisaglie dell’incendio che avrebbe distruttto quasi intreramente la “città eterna”. La folla, presa dal panico, comincia ad abbandonare in fretta il circo, le cui strutture sono già divorate dalle fiamme, alla ricerca di un posto sicuro. Nella fuga generale Fanuèl riesce a guadagnare i sotterranei del circo nella speranza di trovare i locali dello spoliarium, dove erano stati portati i cadaveri dei gladiatori e delle martiri cristiane. S’imbatte in Asteria ed insieme vanno alla ricerca del corpo di Rubria che trovano immobile sul letto funebre, come se fosse già morta; in realtà la giovane non è ancora morta e trova il tempo per esalare l’ultimo respiro fra le braccia di Fanuèl, mentre l’azione distruttiva del fuoco, dalla quale Fanuèl ed Asteria si salvano a stento, raggiunge le ultime strutture del circo.
In quest’opera si evidenzia in tutti i suoi aspetti essenziali la concezione che Boito ebbe dell’arte; il poeta-musicista ritenne, infatti, che l’artista, creando la sua opera, realizzava una felice ed equilibrata sintesi fra materia e forma, tra realtà storica ed immaginazione, tra bello e brutto, tra amore ed odio. Nell’atto quarto Boito fa dire a Nerone «il Mostruoso è il bello», intendendo significare che nessun aspetto della realtà, per quanto assuma tinte fosche o mostruose, può sottrarsi alla forza creativa dell’arte, che deve essere sempre, in coloro che ne fruiscono, suscitatrice di sentimenti; deve, cioè, far vibrare tutte le corde dell’anima, da quelle che esprimono, nelle forme più delicate e varie e con gradazioni diverse, i trasporti dell’amore, a quelle che diffondono i clamori suscitati dall’odio e dalla violenza sanguinaria.
I dualismi tra positivo e negativo, bello e brutto, amore e odio, vengono così superati nel segno dell’arte che colloca le creazioni dell’immaginazione nel contesto veritiero e documentato della realtà storica, a tal punto che gli stati d’animo, attribuiti ai protagonisti dell’opera, non sono inventati, ma evidenziano un loro plausibile grado di verosimiglianza.