Rodolphe Kreutzer (1766-1831): “La mort d’Abel” (1825)

Tragédie lyrique  in due atti di Francois-Benoît Hoffman. Katia Velletaz (Méala), Yumiko Tanimura (Tirsa), Jennifer Borghi (Ève), Sébastien Droy (Abel), Jean-Sébastien Bou (Caïn), Pierre-Yves Pruvot (Adam), Alain Buet (Anamelech). Chœr de chambre de Namur, Les Agrémens, Guy van Waas (Direttore). Registrazione. Salle Philarmonique de Liège 8-14 novembre 2010. 2 CD Editciones Singulares – Palazzetto Bru Zane ES1008
  

La fama dei Rodolphe Kreutzer (1766 – 1831) è inevitabilmente  indiretta; cessati i successi del grande virtuoso, il suo nome è infatti ricordato principalmente per la sonata n. 9 op. 27 dedicatagli da Beethoven e forse ancor più al racconto di Tolstoj che da essa trae il titolo. L’ascolto della sua musica è però di assoluto interesse mostrandoci un compositore non solo abile ma difficilissimo da collocare nel contesto musicale del proprio tempo e piuttosto rivolto al futuro con lampi quasi visionari verso realtà musicali destinate a venire decenni dopo la sua scomparsa.
Il suo maggior successo è stata l’opera-oratorio “La mort d’Abel” andata in scena nel 1810 e ripresa nel 1825 in una versione ridotta che suscitò l’esaltato entusiasmo di Berlioz. Ascoltata oggi, non suscita forse più l’irrefrenabile adorazione che traspare dalle lettere berlioziane ma lascia sicuramente affascinati per ricchezza e modernità. L’opera rappresenta il risultato massimo di un genere di oratorio drammatico divenuto di moda in Francia dopo il successo della prima rappresentazione parigina de “La creazione“ di Haydn e che aveva raccolto i favori del pubblico nonostante la sostanziale ostilità dei governi rivoluzionari e poi di Bonaparte nei confronti dei soggetti biblici a teatro. Ma nessuno di questi lavori raggiunge neppure a distanza la ricchezza e la forza visionaria del lavoro di Kreutzer che per la sua capacità di unire un ricchissimo contrappunto di stampo oratoriale all’intensità dell’affresco epico-storico troverà un’erede solo nel “Samson et Dalila” di Saint-Saëns del 1877 come affermato da Dratwicki nella sua storia dell’oratorio francese.
È alquanto impervio descrivere una musica così sfuggente e così difficile da classificare. La scrittura orchestrale è di una ricchezza per quel tempo straordinaria con una compattezza e una presenza di suono ormai pienamente rivolte al nuovo secolo arricchite di impasti timbrici imprevedibili e capaci di improvvise trasparenze di una purezza formale che ritroveremo solo in Gounod – si veda il coro angelico conclusivo. Una musica inoltre permeata di un senso della natura e del paesaggio quale mai la Francia aveva conosciuto e che ritroveremo con questa intensità solo nel “Guillaume Tell” rossiniano e che non poteva non suscitare una forte impressione su Berlioz destinata a durare a lungo visti gli echi nella “Symphonie Fantastique” e nella “Damnation de Faust”.
Questa ricchezza della scrittura si sposa poi con una stringatezza teatrale – l’intera opera dura circa un’ora e mezza nella versione definitiva – in cui nulla è fine a se stesso ma tutto è ricondotto ad una logica teatrale ferrea e stringente, sempre controllatissima. Anche sul piano della vocalità l’opera appare decisamente rivolta al futuro e, se la parte di Abel scritta per Nourrit si ricollega ancora alla tradizione dei tenori della tragedie lyrique tardo-settecentesca, le parti di Adam e soprattutto di Caïn superano decisamente quelli che erano i limiti del basso cantante per anticipare con imprevedibile forza quello che sarà il baritono romantico ottocentesco.
Dobbiamo quindi essere nuovamente grati alla Fondazione Palazzetto Bru Zane di aver reso fruibile un’altra partitura di notevolissimo interesse e a torto totalmente dimenticata. Registrata a Liegi nel novembre del 2010 questa produzione conta di due complessi già apprezzati in altri titoli come Les Agrémens e il Chœr de chambre de Namur sotto la guida del fondatore e direttore stabile Guy Van Waas. Noti soprattutto per le loro esecuzioni del repertorio francese del XVIII secolo, i complessi valloni si mostrano particolarmente a loro agio nel clima ormai romantico della partitura offrendo una lettura decisamente coinvolgente e di grande precisione musicale capace di valorizzare al meglio la ricchezza e l’originalità dello stile di Kreutzer con le sue fiammeggianti esplosioni, i suoi ripiegamenti lirici e le sue sonorità liquide e trasparenti quasi impressioniste se non fosse per lo stacco cronologico.
Validissima la compagnia di canto dominata dallo splendido Caïn di Jean-Sébastien Bou, autentica voce di baritono nobile morbida, di colore molto bello ed unita ad un accento  autorevole. Già l’entrata sul declamato di “Je vais le remener” a metà del I atto ha una forza e una personalità che non lasciano indifferenti. Magnifico l’arioso “Où vais-je…” che forma un corpo unico con il preludio al secondo atto, brano di alta ispirazione, romantico e quasi faustiano e reso con un’intensità e una nobiltà di canto davvero rimarchevoli. Bou è un cantante da tenere assolutamente d’occhio anche per un repertorio posteriore: penso a certi ruoli donizzetiani. Molto bravo anche l’altro baritono Pierre-Yves Pruvot nobile e paterno nella parte di Adam impostata su nobili cantabili. L’ingrata parte di Abel – acutissima ma priva di momenti di forte impatto – è affidata a Sébastien Droy, voce sicura e di buon squillo, ben contrapposta nel suo lirismo un po’ esangue alla sanguigna personalità del fratello. Efficace nella sua breve parte Alain Buet (Anamelech) ma va ricordato come il suo ruolo sia quasi annullato dal taglio del II atto di ambientazione infernale in cui doveva essere protagonista assoluto.
La parte femminile del cast vede l’Ève di Jennifer Borghi, presenza abituale in queste produzioni, che, aiutata da una tessitura abbastanza centrale, può sfruttare un bel timbro caldo e morbido, adatto alla materna femminilità del ruolo. Le spose dei due figli sono la Méala di Katia Velletaz cui è affidata la piacevole aria “Je attendais dans l’aurore” ancora legata strutturalmente a forme tardo-settecentesche ma animata da uno spirito nuovo quasi beethoveniano e la Tirsa (Yumiko Tanimura) priva di momenti solisti e limitata ai soli pezzi d’assieme.