“Siegfried” al Teatro Massimo di Palermo

Teatro Massimo – Stagione Lirica 2015
“SIEGFRIED”
Seconda giornata della sagra scenica Der Ring des Nibelungen, in tre atti
Libretto e musica di Richard Wagner
Siegfried CHRISTIAN VOIGT
Mime PETER BRONDER
Wanderer (Wotan) THOMAS GAZHELI
Alberich SERGEI LEIFERKUS
Fafner MICHAEL EDER
Erda JUDIT KUTASI
Brünnhilde MEAGAN MILLER
Stimme eines Waldvogels DEBORAH LEONETTI
Orchestra del Teatro Massimo
Direttore Stefan Anton Reck
Regia Graham Vick
Scene e costumi Richard Hudson
Azioni mimiche Ron Howell
Light designer Giuseppe Di Iorio
Palermo, 18 dicembre 2015

Da febbraio 2013 a oggi, per quasi tre anni Brünnhilde è rimasta imprigionata nel sonno magico al quale Wotan l’aveva condannata. La sovrapposizione tra finzione e realtà ha fatto sì che il lasso di tempo trascorso fra l’andata in scena a Palermo di Die Walküre e l’allestimento di Siegfried non pesasse più di tanto. Ma senza dubbio le ripercussioni sul piano della memoria e della coerenza non sono state irrilevanti. Nelle parole del sovrintendente la ripresa del progetto della tetralogia a firma di Graham Vick ha dunque l’intenzione di sanare una ferita con il pubblico. Tuttavia ciò avviene con uno spettacolo che di ferite ne apre di continuo, esibendole in tutta la loro crudezza. La prima che si offre allo spettatore è l’immagine scarnificata del palcoscenico del teatro, sempre visibile e mai occultata dal velo del sipario. Sullo sfondo dello squallido monolocale che simboleggia la grotta di Mime, un telo dipinto rappresenta invece la foresta. Il fondale è però in obliquo e tale rimarrà sino alla fine dell’opera, attraverso le scarne scene ideate da Richard Hudson. La ferita tra uomo e natura è dunque insanabile e nemmeno Siegfried riuscirà a recuperarla. Frattura altrettanto scoperta e problematica è poi quella della spada, la mitica Notung. Primo personaggio in scena, il Mime di Peter Bronder è ossessionato dal pensiero di poterla ricomporre e ottenere così l’anello custodito dal drago/Fafner. E l’ossessione si manifesta nello stesso modo di Das Rheingold: lì i Nibelunghi pigiavano freneticamente le tastiere dei computer, accumulando un oro tutto virtuale. Lo stesso fa Mime, cercando spasmodicamente una soluzione al proprio problema. A partire dalle prime battute Bronder compone un personaggio di effetto, non soltanto a livello vocale ma anche sul piano scenico. Lo dimostra durante il racconto sulla nascita di Siegfried e ancor più nel secondo atto, quando si confronta con il fratello Alberich o nella scena che precede la sua morte. A raggiungerlo sul palcoscenico è il tempestoso Siegfried, abbigliato secondo i gusti dell’adolescente odierno, con pantaloni in acetato, t-shirt extra large e scarpe da tennis. Siegfried è alle prese con la propria infanzia, e basterebbe già solo osservare le pareti della stanza per rendersene conto. Quest’ultime sono infatti tappezzate di disegni puerili, poster fantasy e fotografie del giovane da neonato. Fra i disegni spicca quello di un lupo – ovvero lo stesso Siegfried, appartenente alla dinastia dei Walsidi – di cui il Viandante si approprierà, con un gesto di pregnanza leitmotivica tanto eloquente quanto il motivo che si ascolta in orchestra. Dopo un avvio incerto, Christian Voigt sfoggia qualità interessanti, articolando un canto invitante che però nelle ultime file arrivava leggermente attutito e talvolta coperto dagli strumenti. Nonostante questo, la costruzione del personaggio rispetta le intenzioni di Vick, e in definitiva anche quelle di Wagner: un ‘giovanottone’ impulsivo e contraddittorio, con sbalzi d’umore improvvisi, pronto a rifugiarsi tra le braccia di quel nano che non perde occasione di insultare. Soprattutto è un personaggio che è alla ricerca del suo passato, tenacemente attaccato alla propria immaturità. Il mega orsacchiotto che si trascina per tutto il primo atto siede infatti alla sua stessa tavola, con suggestioni cinematografiche che rimandano a diversi esempi (fra i quali il delizioso Saving Mr. Banks, anche questo profondamente legato agli irrisolti dell’infanzia). L’ingresso di Wotan avviene in platea, ricordando ancora una volta la mescolanza tra dèi e uomini sulla quale si era basato Das Rheingold. Il Viandante è tuttavia svuotato e afferma un potere che in realtà non gli appartiene, del quale la lancia è soltanto pallido ricordo. Il potere del dio risiede però nella voce di Thomas Gazheli, la cui statura è evidente nel fraseggio solido che ricorda il Commendatore nella scena finale del Don Giovanni. Ma con il passare dei minuti la voce si frastaglia nelle tre risposte, svelando un nervosismo che tocca l’apice nel riferimento al Walhalla. Nell’altrettanto efficace monologo del nano, angosciato da infinite paure, risulta chiaro che il predestinato a ricreare la “spada spietata” non sia lui, ma Siegfried stesso. La scena della forgiatura è risolta in modo talmente spiazzante che si preferisce non svelarla, per non rischiare di rovinare la sorpresa. Piuttosto preme sottolineare l’alto livello delle soluzioni luminose di questo primo atto, realizzate dalla sapiente mano di Giuseppe Di Iorio. In un primo momento le uniche fonti di luce sono infatti il computer e l’acquario, entrambi rivestiti di un ruolo e significato importanti. Successivamente l’illuminazione è invece giocata sui toni caldi del paralume, contrapposti alla luce fredda del neon. E altrettanto suggestiva è la tempesta di fulmini che accompagna l’intervento di Mime successivo all’uscita di Wotan. Ma le luci svolgono un ruolo ancor più essenziale nel secondo atto, soprattutto nelle due apparizioni del drago. A dire il vero inizialmente del drago sentiamo soltanto la voce, amplificata e proveniente dall’alto, mentre un faro accecante viene sparato sulla platea. Nella lotta vera e propria il drago è invece rappresentato dal muletto già visto nel Prologo, con gli occhi riprodotti da schermi e al centro uno schermo più grande con denti umani in bella vista. A guidarlo è il Fafner di Michael Eder, il cui canto torvo e sulfureo riesce a rendere perfettamente il ‘supplizio’ del gigante.  Momento chiave del secondo atto è l’incontro tra Wotan e Alberich, che dopo tanto tempo pone i due nemici l’uno di fronte all’altro. Il rispecchiamento è perfetto, e benché privo di una parte dell’antico smalto, Sergei Leiferkus esprime un canto dignitoso e partecipe della condizione del suo antagonista. Entrambi sconfitti, il dio e il Nibelungo si riconoscono l’uno nell’altro e le loro voci si confondono all’interno della medesima linea espressiva. Il dialogo avviene sullo sfondo di un mondo caratterizzato da violenza e prevaricazione, con cumuli di immondizia sulla sinistra e il fondale con la foresta ormai ben visibile, ma sempre più collassato e pendente. Il mormorio della foresta non ha dunque nulla di armonioso o confortante, ma è contrappuntato dai mimi in fuga frenetica (coordinati nei movimenti da Ron Howell), con atti di violenza che talvolta appaiono gratuiti, laddove nelle prime due opere risultavano più funzionali all’azione. All’orchestra soltanto, e ai fiati in particolare, è lasciato dunque il compito di esprimere l’incanto del momento. E se in determinati passaggi la compagine del Teatro Massimo aveva peccato di incisività e di compattezza di suono, è nell’isolamento dei timbri e dei leitmotive che si apprezzano certi dettagli della partitura, con un risultato soddisfacente che va pure ascritto all’equilibrio della direzione di Stefan Anton Reck. La natura è quindi manovrata o assente, come dimostra l’uccellino messo in moto da una fanciulla in vesti di scout, vale a dire Deborah Leonetti, la cui voce non brilla forse per lucentezza, ma è intonata e carezzevole. Agli antipodi si pone Judit Kutasi nel ruolo di Erda, ‘terrea’ di nome e di fatto. Vick infatti la presenta come una clochard infagottata in abiti sformati, pallida e anziana, in contrasto con la corposa emissione e la signorilità del fraseggio. In uno scenario sempre più desolato si muove l’inconsapevole Siegfried, lasciato solo dall’uccellino che è ghermito con violenza da uno dei mimi. Inconsapevolmente fronteggia Wotan che gli sbarra la strada, spezzando la lancia con Notung. E inconsapevolmente riesce ad attraversare il cerchio di fuoco che circonda la Valchiria, pur agendo da manovratore del fondale della foresta. La pedana rotante per rappresentare l’incantesimo del fuoco ritorna anche qui, evidenziando lo stretto legame con Die Walküre. Al posto però di Loge troviamo ancora i mimi, vampe guizzanti che quasi esauste di ardere si liberano dei vestiti e man mano si placano, con un effetto di grande impatto visivo. Ma da quel momento in poi il finale perde di mordente ed è un continuo di delusioni. Non tanto per il povero Siegfried in mutande, né per Brünnhilde che truccata da vampira rotola al risveglio, ma per il modo in cui è costruito uno dei più alti momenti dell’intera tetralogia. Coerentemente con quanto visto nelle altre opere, ci si aspettava qualcosa di simile all’irruzione della primavera durante il duetto fra Siegmund e Sieglinde. E invece tutto quanto è improntato a fissità, con movimenti poco coordinati fra i due protagonisti. Che in Siegfried non vi siano eroi lo si può comprendere e condividere; ma che qui non vi sia alcun cenno d’amore, sostituito da qualche prurito adolescenziale, non lo si può perdonare. Ed ecco che mentre Meagan Miller diffonde il suo saluto al mondo – inizialmente un po’ in sordina, ma poi sempre più intensa e affascinante – Siegfried le siede accanto, con espressione stupidamente compiaciuta, toccandosi di continuo il naso. Come se non bastasse Voigt risulta ormai affaticato e non riesce a dosare l’emissione sulle note più acute. L’intera scena pesa dunque sulle spalle di soprano e orchestra, che però per fortuna se la cavano decorosamente. Il percorso di maturazione del protagonista – quel passaggio dall’infanzia al mondo adulto, rappresentato dalla decapitazione dell’orsacchiotto – è in definitiva del tutto ignorato. Viceversa l’unico gesto di affetto sincero rimane l’abbraccio di Brünnhilde al suo destriero, il fedele Grane, che suscita un moto di gelosia da parte di Siegfried (e francamente pare che i motivi ci siano tutti). L’atto non è forse fine a se stesso e ci si chiede se avrà ripercussioni nella terza giornata, avendo già in mente il finale di Götterdämmerung. Per il momento però Grane rimane in disparte, spettatore a tratti spaesato, chiedendosi forse se non era meglio rimanere addormentato. Repliche sino al 29 dicembre. Foto di Rosellina Garbo