“Stiffelio” al Teatro la Fenice di Venezia

Venezia, Teatro La Fenice, Lirica e balletto Stagione 2015-2016
“STIFFELIO”
Libretto di Francesco Maria Piave dal dramma Le pasteur, ou L’évangile et le foyer di Émile Souvestre ed Eugène Bourgeois.
Musica di Giuseppe Verdi
Stiffelio STEFANO SECCO
Lina JULIANNA DI GIACOMO
Stankar DIMITRI PLATANIAS
Raffaele FRANCESCO MARSIGLIA
Jorg SIMON LIM
Federico di Frengel CRISTIANO OLIVIERI
Dorotea SOFIA KOBERIDZE
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Daniele Rustioni
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Regia Johannes Weigand
Scene e luci Guido Petzold
Costumi Judith Fischer
Venezia, 22 gennaio 2016
Lo Stiffelio torna, dopo trent’anni, alla Fenice. Opera dall’incerta fortuna, contribuì a segnare il passaggio dall’anelito patriottico del primo Verdi all’interesse per la società borghese di quel tempo, per l’analisi psicologica dei personaggi. Gli “anni di galera” con la loro parossistica attività compositiva si concludono con Luisa Miller (prima rappresentazione: Napoli, Teatro San Carlo, 8 dicembre 1849), incentrata su un personaggio femminile di cui si indagano i sentimenti e, appunto, con Stiffelio, basato sul tema scabroso dell’adulterio, per giunta perpetrato ai danni di un pastore protestante. La tiepida accoglienza che il pubblico napoletano aveva riservato alla Luisa, spinse Verdi a interrompere la sua collaborazione con il San Carlo – al cui impresario aveva promesso un’altra opera – e a mettersi nelle mani dell’editore Ricordi e dell’esperto Salvatore Cammarano per un nuovo lavoro, pur in assenza di un committente preciso. Rispuntò il vecchio progetto del Re Lear, ma Cammarano prendeva tempo. Fu così che Verdi si rivolse al fidato Piave, anche perché nel frattempo il Teatro La Fenice di Venezia gli aveva richiesto una nuova opera. Il compositore impose al librettista muranese Le roi s’amuse di Hugo, ma accettò altresì di prendere in considerazione un soggetto propostogli dallo stesso Piave, tratto da un dramma francese di Émile Souvestre e Eugène Bourgeois, Le pasteur ou l’évangile et le foyeur, da cui sarebbe nato lo Stiffelio. L’opera “creata” – seppur stravolta dai tagli della Censura – al Teatro Grande di Trieste il 16 novembre 1850), rappresenta un ulteriore passo avanti verso quell’approfondimento psicologico, che avrebbe trovato piena realizzazione proprio a partire dal Rigoletto, rappresentato per la prima volta a Venezia solo qualche mese dopo, il 13 marzo 1851.  Sono note le vicende che portarono Verdi a ritirare quest’opera sfortunata, sostituendola con un suo radicale rifacimento, l’Aroldo. Dunque lo Stiffelio scomparve dalle scene per circa un secolo e, quando il Regio di Parma, nel 1968, intese riproporlo, si dovette ricorrere a due manoscritti non autografi (conservati presso il Conservatorio di Napoli), essendosi perduta la partitura “ufficiale”. Altre date fondamentali per la rinascita dell’opera sono: il 1985, allorché il Teatro La Fenice ripropose insieme Aroldo e Stiffelio, in un porficuo confronto; il 1993, anno in cui il Covent Garden lo rappresentò per la prima volta in Inghilterra nell’edizione critica curata da Kathleen Kuzmick Hansell per conto della University of Chicago Press e di casa Ricordi; il 1995, quando lo Stiffelio si diede per la prima volta alla Scala sotto la direzione di Gianandrea Gavazzeni. Ciononostante l’opera non è mai entrata stabilmente in repertorio. Più che opportuna, dunque, l’iniziativa della Fenice di rimettere l’opera in cartellone, dopo trent’anni, proponendo al pubblico e alla critica uno degli appuntamenti più attesi della presente stagione lirica veneziana. Certo lo Stiffelio non può stare all’altezza dei titoli che compongono la cosiddetta trilogia popolare, di cui tuttavia costituisce una fondamentale anticipazione: se l’opera è ancora legata a certe forme convenzionali, a certi stilemi di derivazione donizettiana, è innegabile che in essa si preannunciano soluzioni musicali a venire, in particolare quel declamato drammatico, che si ritroverà nel Rigoletto, a testimoniare la nuova visione umana, realistica, non aulica del melodramma. Per non citare le ricorrenti modulazioni inattese, il frequente ricorso all’enarmonia o le diffuse ricercatezze timbriche.
Di tutto questo è sembrato consapevole il giovane, ma già maturo direttore Daniele Rustioni, che ha improntato la sua interpretazione ad una raffinata ricerca del suono, ottenendo dall’orchestra – ancora una volta in ottima forma – impasti sonori nitidi e brillanti, dimostrando altresì di saper trovare sempre il giusto accento al pari di un’equilibrata scelta di tempi, cui si univa una rara capacità di accompagnare le voci, come si è potuto cogliere anche nei poderosi concertati. Ne è risultato un Verdi sanguigno e nel contempo sottile indagatore dell’animo umano. Come dev’essere.
Non così convincente la regia di Johannes Weigand (apprezzato qualche anno fa dal pubblico veneziano per la messinscena de La porta della legge di Sciarrino), che proietta la vicenda e i personaggi in una realtà estraniante, in cui l’interno (l’intimità della casa) e l’esterno (uno spazio abbastanza indeterminato, in cui domina un faro a tre luci, che nell’ultima scena si fa pulpito) sono separati da una sorta di grata, che a tratti si apre, dimostrando l’impossibilità di difendere la pace domestica dall’invidia del Mondo. Si tratta di un’impostazione registica piuttosto debole, che si è tradotta in una permanente staticità sulla scena, in cui gestualità, luci, arredi e costumi erano complessivamente poco espressivi. Di difficile comprensione poi la presenza, nel secondo atto, delle tombe, tra cui quella della madre di Lina, ai piedi del succitato faro, in una scena che dovrebbe avere un carattere lugubre, cimiteriale, ossianico.
Mediamente di buon livello le voci. Degna di nota la prestazione di Stefano Secco nel ruolo eponimo, che ha sfoggiato una cangiante espressività – come si addice ad un personaggio combattuto tra il desiderio di vendetta e la propensione al perdono evangelico –, un fraseggio scolpito, una voce potente, dal timbro chiaro, per quanto rivelando, forse, un’emissione un po’ troppo aperta. Più modesta Julianna Di Giacomo, quale Lina: la sua voce dal bel timbro perlaceo perdeva di morbidezza negli acuti, i quali più che cantati risultavano gridati nella loro inespressiva fissità. Autorevole Dimitri Platanias nei panni del Padre di Lina, che con voce timbrata e stentorea ha offerto un personaggio virilmente sdegnato. Di notevole eleganza lo Jorg offerto da Simon Lim, una voce dal nobile brunito metallo, assolutamente omogenea e perfettamente padroneggiata. Buona la performace di Francesco Marsiglia nel ruolo di Raffaello, reso in tutta la sua scialba pusillanimità, al pari di quelle di Cristiano Olivieri (Federico di Frengel) e Sofia Koberidze (Dorotea). Pienamente all’altezza il coro, istruito da Claudio Marino Moretti, cui sono affidate alcune pagine straordinarie, a conferma della particolare sensibilità nei confronti di questa formazione, dimostrata dal Maestro di Busseto. Successo pieno. Foto Michele Crosera