Alberto Franchetti (1860-1942): “La figlia di Iorio” (1906)

Rappresentata per la prima volta al Teatro Lirico di Milano il 2 marzo 1904 con la compagnia teatrale di Virgilio Talli con Teresa Franchini (Candia della Leonessa), Irma Grammatica (Mila) e Ruggero Ruggeri (Aligi), La figlia di Iorio di Gabriele D’Annunzio ebbe un enorme quanto immediato successo testimoniato non solo dalle numerose repliche a cui la stessa compagnia diede vita e dalle 20000 copie vendute della tragedia, ma anche dalle altrettanto numerose trasposizioni di questo capolavoro del Vate. Già nel 1904 Giuseppe Antonio  Borgese ed Eduardo Scarpetta realizzarono, infatti, rispettivamente una versione in siciliano e una parodia in Napoletano, mentre per la prima rappresentazione in dialetto abruzzese si sarebbe dovuto attendere il 24 agosto 1923 nella traduzione di Cesare De Titta. Tra il 1911 e il 1916, inoltre, furono realizzate anche due trasposizioni cinematografiche entrambe con la regia di Edoardo Bencivenga, la seconda delle quali vantava, nel suo cast, autentiche star del cinema muto: Irene Saffo (Mila di Codro), Mario Bonnard (Alígi), Giovanna Scotto (Vienda). Nonostante il successo, non fu molto semplice per D’Annunzio trovare un musicista che si impegnasse a realizzare una trasposizione musicale del libretto che lo stesso Vate aveva tratto dalla sua opera. I tentativi fatti sia con Ferruccio Busoni che con Puccini risultarono vani per una forma di incompatibilità di carattere e nonostante gli sforzi per una possibile collaborazione fossero sinceri. Quando Puccini fu contattato per La figlia di Iorio, già erano miseramente falliti molti altri progetti che i due artisti avevano messo in cantiere dal lontano 1994 e che avevano messo in luce come i due mondi artistici del poeta e del musicista fossero lontani. Lo stesso Puccini, infatti, in una lettera indirizzata a Illica il 15 maggio 1900 aveva scritto con una certa ironia:

Oh meraviglia delle meraviglie! D’Annunzio mio librettista! Ma neanche per tutto l’oro del mondo. Troppa distillazione ubriaca ed io voglio restar in gamba”.

La scelta ricadde allora su Alberto Franchetti, compositore Torinese che, nato nel 1860, si era fatto conoscere nel mondo teatrale per alcune opere: Asrael su libretto di Ferdinando Fontana (Teatro Municipale di Reggio Emilia l’11 febbraio 1888); Cristoforo Colombo su libretto di Luigi Illica (Teatro Carlo Felice di Genova, 6 ottobre 1892); Fior d’Alpe su libretto di Leo di Castelnuovo, pseudonimo di Leopoldo Pullè  (Teatro alla Scala di Milano, 5 marzo 1894); Il signor Pourceaugnac su libretto di Fontana (Teatro alla Scala di Milano, 10 aprile 1897); Germania su libretto di Illica che, rappresentata per la prima volta alla Scala il 17 marzo 1902, era entrata per un certo periodo nel repertorio del grande tenore Enrico Caruso che, insieme a Toscanini, fu uno degli estimatori di Franchetti. La collaborazione tra il compositore torinese e il Vate fu abbastanza proficua  nonostante qualche difficoltà e qualche divergenza di vedute, come si può notare in questa caustica affermazione contenuta in una lettera indirizzata da D’Annunzio ad un amico nel 1905:

“Odo muggire l’automobile di Alberto Franchetti, il quale viene a supplicarmi di trasmutare in pillolette quaternarie il granito della Majella”. Da parte sua Franchetti era consapevole che avrebbe dovuto cedere qualcosa sul piano della sua scrittura musicale per accontentare l’esigente collaboratore, come si evince da quanto affermato dallo stesso compositore:
“Questa volta ho voluto che La figlia di Jorio fosse di D’Annunzio; ho voluto che la parola avesse il suo valore e che la musica fosse quasi piegata ad essa”.
In una Scala gremita da personalità del mondo della cultura (oltre all’ovvia presenza di D’Annunzio vanno citate quelle di Puccini, Giordano, Alfano, Montemezzi, Francesco Paolo Tosti e Francesco Cilea), l’opera andò in scena il 29 marzo 1906 sotto la direzione di Leopoldo Mugnone con Giovanni Zenatello (Aligi), Eleonora de Cisneros (Candia della Leonessa) e Angelica Pandolfini (Mila di Codra) con un discreto successo, come si evince dalla recensione di Pier Antonio Omodei apparsa su «La Stampa» di Torino il 30 marzo 1906:
L’accoglienza che il pubblico milanese ha fatto al nuovo lavoro di Franchetti è stata dunque assai buona: calorosa al primo atto, meno al secondo, anche più calorosa al terzo. Il giudizio parve esatto, perché migliore, senza dubbio, per svolgimento, saldezza di ambiente e vigoria drammatica, è il terzo atto, mentre il meno felice è quello di mezzo”.
Le critiche da parte dei giornalisti furono, però, meno calorose rispetto a quelle tributate all’opera da parte del pubblico. Lo stesso Omodei, in occasione di una ripresa dell’opera al Teatro Regio di Torino nel 1907, scrisse su «La Stampa» del 25 febbraio 1907:
“La musica. Scrivemmo della musica la sera stessa della prima rappresentazione a Milano e con una certa ampiezza: per non ripeterci, ne discorriamo oggi brevemente. Tanto più che le nostre impressioni – dopo aver riudito l’opera ieri sera – sono sostanzialmente quelle di allora. Alberto Franchetti, giunto alla maturità del suo ingegno, volle ricercare una forma d’arte definitiva e libera dalle pastoie convenzionali e dai processi di maniera, comuni ai giovani maestri italiani, – i quali, smarrito ogni carattere nazionale, senza essere riusciti – salvo qualche eccezione – ad affermare uno stile loro proprio, si dibattono, da qualche anno, nel circolo vizioso di idiotismi e manierismi pretenziosi, inadatti a mascherare l’intima povertà della loro musica. Noi però non esitiamo ad affermare che a Franchetti l’esperimento non è riuscito: la sua è opera d’arte diseguale, difettosa di sincera ispirazione, manchevole di ogni profondità. Disuguale, soprattutto, perché accanto a procedimenti wagneriani e moderni, prendono posto arie di stampo antico, vecchie e stantie, atteggiamenti donizettiani, arieggianti alle forme antiche tradizionali, delle quali il tempo ormai ha fatto giustizia. Superficiale, perché il sistema del declamato melodico, travolgente in onda irruente ed incalzante, dettagli psicologici di grande importanza, non sostenuti né illustrati da un commento orchestrale solido e pieghevole alle mutevoli e contingenti necessità dell’azione, è sistema comodo e inadeguato. E non neghiamo, per altro, che, libere da lenocinii e da enfasi, sorrette da tenui, ma graziosi ricami orchestrali, talune melodie franchettiane, semplici ed ingenue, ci appaiono non prive di fascino e capaci di seduzione”.[1]

Dopo questa rappresentazione l’opera sparì dai cartelloni teatrali e lo stesso D’Annunzio il 6 luglio 1936, un anno prima della morte e ben 30 anni dopo la prima dell’opera di Franchetti, chiese ad Ildebrando Pizzetti, al quale era legato da una profonda amicizia, di mettere in musica La figlia di Iorio. Così lo stesso compositore ricordò quell’ultimo incontro con il Vate:
“Era venuta la mezzanotte. Ci alzammo per separarci: io per scendere alla Mirabella, donde sarei partito la mattina dopo, in automobile, per Padova; egli per salire in camera sua. «Aspetta – mi disse a un tratto: – non voglio che tu vada via senza il mio dono». E rientrò in casa, lasciandomi solo per pochi minuti. E quando ridiscese mi porse una busta indirizzata al mio nome contenente questa lettera, che ho qui dinnanzi agli occhi. E ci abbracciammo. E fu l’ultima volta.
La lettera che ho qui davanti a me comincia così: «Mio caro Ildebrando, quando venni la prima volta a Parma con il manoscritto della tragedia adriaca «La Nave» per chiederti gli interludi e gli inni di Rito, sentii che l’amicizia s’offriva a me dal petto del grande artista promesso all’avvenire… Oggi (sacrifico a quella che potrebbe apparire mia vanità le due pagine che seguono) oggi ti offro la tragedia pastorale «La figlia di Iorio». E, poi, ecco: Ildebrando, io ti dono. «La figlia di Iorio», libera, fresca, senza età come una canzone popolare. Senza prescrizioni e senza pesi io te la dono. La sollevo al sommo della tua musica, in purità“.

Pizzetti esaudì il desiderio di D’Annunzio soltanto 16 anni dopo nel 1954, mentre l’opera di Franchetti, che nel frattempo era morto nel 1942, sarebbe stata ripresa soltanto nel 1988 grazie alla tenacia e alla passione di Enrico De Mori che in occasione del cinquantenario della morte del Pescarese avrebbe voluto avviare un programma settennale in base al quale sarebbero state rappresentate nel Teatro del Vittoriale tutte le opere liriche tratte dai lavori letterari di D’Annunzio. Dell’ambizioso programma, però, fu portata a termine, tra mille difficoltà e con il non indifferente contributo economico di circa 400 milioni di lire interamente versato da De Mori, la rappresentazione della Figlia di Iorio di Franchetti. Non fu facile nemmeno reperire la partitura dal momento che tutti i materiali stampati da Ricordi erano stati conservati in un magazzino che era stato bombardato durante la Seconda Guerra Mondiale; dell’opera erano rimasti, infatti, lo spartito per canto e pianoforte in microfilm e l’autografo di Franchetti redatto parte in matita e parte a penna. Come ricordato in un articolo dell’«Arena» la «decifrazione» dell’autografo non fu semplice e occupò la primavera e l’estate del 1988. Dal 16 al 24 luglio dello stesso anno ebbe luogo nel teatro del Vittoriale la prima rappresentazione moderna dell’opera sotto la direzione di De Mori con la regia di Aldo Masella e Vincenzo Puma (Aligi), Wilma Borelli (Candia della Leonessa) e Maria Bravo (Mila di Codra). Di questa rappresentazione, che ebbe vasta eco sui giornali dell’epoca i quali esaltarono la difficile operazione culturale progettata e realizzata da De Mori, esiste una registrazione che è stata pubblicata nel 2014 ad opera della Giovane Classicità di cui è direttore Francesco Mazzoli che ci ha fornito queste importanti notizie.
L’opera
Atto primo

L’opera è introdotta da un preludio diviso in due sezioni delle quali la prima presenta il tema che caratterizzerà in modo drammatico la protagonista, quasi un Leitmotiv (Es. 1), mentre la seconda rende perfettamente l’ambientazione pastorale dell’opera grazie a un dolce e cullante tema in 6/8 (Es. 2). Subito dopo la scena si apre in un interno familiare con le tre sorelle, Ornella, Splendore e Favetta che, in ginocchio davanti alle tre arche del corredo nuziale, stanno scegliendo gli abiti della sposa, Vienda. Il loro cicaleccio (Che vuoi tu?) prosegue il clima sereno e pastorale della seconda parte del preludio; Ornella, imitata musicalmente in un sapiente gioco contrappuntistico dalle sorelle, manifesta la sua volontà di vestirsi di verde (Tutta di verde mi voglio vestire). In questa scena iniziale Franchetti dà vita ad una pagina di intima serenità grazie ad una scrittura melodica semplice che rende perfettamente il carattere delle tre ragazze interrotte dall’arrivo di Candia della Leonessa, madre di Aligi, che le riprende bonariamente in una scrittura ironica e buffa (Ah cicale, mie cicale).
L’arrivo di Aligi produce un netto cambiamento del clima complessivo della scena; il carattere scuro e pensoso di questo personaggio è reso da un tema grave in orchestra che introduce le parole del giovane il quale benedice la madre (Laudato Gesù e Maria), in una scrittura apparentemente ieratica e religiosa minata, tuttavia, da un tormento che attanaglia Aligi e si esprime in orchestra attraverso la ripresa del tema iniziale del preludio. Si sente dall’esterno un urlo che turba ancor di più l’animo di Aligi il quale incomincia a vaneggiare su una scrittura orchestrale particolarmente drammatica caratterizzata dalla ripresa della parte iniziale del preludio. L’apparizione sulla soglia della sposa, vestita di verde e accompagnata dalle sorelle, oltre a rappresentare quasi una laica epifania di purezza e di bellezza, riporta la scena al sereno clima iniziale (Ecco la sposa. L’abbiamo vestita) alla cui ripresa contribuisce anche l’arrivo delle altre donne che intonano un coro dalla melodia di carattere popolareggiante Ohè! Chi guarda il ponte?. Le donne danno vita ad un rito augurale nei confronti della sposa sul cui capo vengono sparsi dei pugni di grano in una scrittura musicale ieratica che caratterizza il momento altamente solenne. Introdotta dal drammatico tema iniziale del preludio, irrompe nella casa una donna Sconosciuta che cerca riparo perché inseguita da alcuni mietitori ubriachi. La sua richiesta di aiuto trova la sua espressione in un canto particolarmente accorato (Gente di Dio), anche se il suo arrivo produce delle reazioni contrastanti: se, infatti, le tre sorelle sono mosse ad un sentimento di pietà nei confronti della donna, le Parenti non riescono ad allontanarsi dalla loro mentalità benpensante che tende a guardare la nuova arrivata con sospetto. Giunti alla porta dell’abitazione, gli uomini vorrebbero che fosse loro aperto, ma Ornella decide di non aprire nemmeno di fronte alle insistenze dei mietitori che, in un passo dalla raffinata scrittura contrappuntistica, continuano a chiedere che la ragazza sia loro consegnata, mentre le donne pregano. Franchetti rende bene il contrasto tra i Mietitori che indulgono quasi al parlato attraverso dei suoni ribattuti e le donne che, invece, si librano in un tema dalle grandi aperture melodiche. Alla fine i Mietitori, sul tema iniziale che in orchestra accompagna sempre la protagonista, rivelano l’identità della donna che non è altri se non Mila di Codra, la svergognata figlia del mago Iorio, aggiungendo che proprio a causa di questa donna il marito di Candia, Lazzaro ha litigato proprio quella mattina con Raniero dell’Orno. Candia ordina al figlio Aligi di aprire la porta, ma Mila chiede ancora aiuto in un canto di profonda umanità (Pietà! Non io) che genera quasi un vero e proprio concertato nel quale tutti i personaggi esprimono il loro pensiero. Alla fine Aligi vorrebbe colpire la donna con una mazza, ma è fermato dalla visione di un angelo piangente (Mercè di Dio!) che gli ispira sentimenti religiosi. Senza alcuna paura apre ai Mietitori e, mostrando la croce, invita le donne ad intonare una celestiale preghiera. L’arrivo di Lazzaro, però, fa ripiombare tutti i personaggi nel clima tragico dell’inizio.
Atto secondo
In una caverna montana, dove Aligi e Mila sono andati a vivere insieme, il suono di una cornamusa, rappresentata efficacemente da un oboe, introduce l’ambientazione pastorale di questa scena iniziale. Mila di Codra intona una canzone popolare (Masti è mutolo), alla quale di tanto in tanto risponde Aligi che da parte sua manifesta il suo amore per la donna (Rinverdisca per noi) in una melodia di intenso lirismo. Si ode un canto di Pellegrini (O Maria) e di Pellegrine (O fonte pura) di carattere liturgico e solenne con la sua scrittura omoritmica e Aligi ne approfitta per chiedere al Crocifero di portare un messaggio per la madre, Candia: l’uomo dovrà riferire alla donna che la sua unione con Mila non  è peccaminosa e che non avrebbe più fatto ritorno a casa se non insieme con la donna da lui amata. Rimasti soli, i due danno vita ad un duetto di intenso lirismo nel quale si rinnovano le promesse d’amore (Aligi, Aligi), ma che, al suo interno, appare presago della tragedia che incombe sui due amanti. Una voce di un pastore seguita da un coro annuncia che è tempo di migrare, quando sulla porta della caverna si staglia la figura di una donna, prima identificata genericamente con l’appellativo di Ammantata, ma che in realtà è Ornella, la sorella di Aligi. Vestita a lutto, la donna, accusata di essere stata la rovina del fratello per aver dato riparo a Mila quando era inseguita dai Mietitori, chiede alla sua interlocutrice di lasciare andar via Aligi, ma alla fine cede alle accorate parole di Mila che accoglie come nuova sorella. Rimasta sola, Mila prega la Madonna, ma la sua serenità è minata da un nefasto presagio costituito dallo spegnimento della lampada. Proprio in quel momento giunge Lazaro di Roio, padre di Aligi, per insidiare Mila della quale è morbosamente invaghita (Femmina, non avere paura); il carattere subdolo e volgare dell’uomo è reso perfettamente da Franchetti attraverso una scrittura che indulge quasi al parlato nella parte vocale e a un’accentuazione delle sonorità gravi in orchestra. Ne nasce un alterco con Aligi che, accorso in difesa della donna amata, cerca di condurre a più miti consigli (Ecco padre mi prostro) il padre che, invece, lo percuote con una corda. Lazaro, dopo aver chiamato in soccorso alcuni suoi amici affinché immobilizzino Aligi, resta solo con Mila che in un drammatico duetto cerca di temporeggiare in attesa che possa giungere qualcuno in suo aiuto; quando la situazione sta per precipitare giunge Aligi che, essendo stato liberato da Ornella, uccide il padre.
Atto terzo
Una breve introduzione orchestrale conclusa da una solenne marcia funebre apre il terzo atto che si svolge nella casa di Lazaro il cui corpo giace nudo con il capo poggiato su un fascio di sermenti. Un coro di Lamentatrici (Iesu Cristo) piange la morte dell’uomo secondo il costume; al coro si uniscono Ornella, Favetta e Splendore le quali maledicono quasi il giorno della loro nascita, mentre alcuni Parenti intonano un Requiem in onore del morto. Subito dopo appare sulla soglia Candia della Leonessa che, distrutta e quasi trasognata, intona prima una canzone popolare (E d’una tela) e poi in una pagina di commosso lirismo incomincia a vaneggiare (Ecco e la madre) finché la Voce di Iona annuncia l’arrivo di Aligi. Il coro di Parenti, accompagnato da una marcia funebre,  commenta la processione che conduce, quasi in un rituale, Aligi; in questo momento non manca nemmeno l’elemento religioso che in D’Annunzio si mescola spesso a quello profano e a riti ancestrali paganeggianti ed è reso da Franchetti con una scrittura solenne. Iona, allora, annuncia l’arrivo di Aligi per avere dalla madre la tazza del consolo prima che venga eseguita la sua condanna a morte. L’uomo, che si produce in un canto accorato (Laudato Gesù e Maria), è raggiunto dalla Figlia di Iorio che confessa, mentendo, di aver ucciso Lazaro. La donna in un passo di acceso lirismo (Sì, sì, popolo giusto) manifesta la sua volontà di morire al posto di Aligi e alla fine muore in un rogo purificatore rappresentato dal trionfale finale dell’orchestra con celestiali squilli di tromba.

 [1] Per le citazioni e per le notizie sulla genesi si ringrazia il M°Francesco Mazzoli responsabile dell’associazione la giovane classicità che ha svolto una approfondita ricerca sull’opera e ne ha pubblicato la registrazione dell’esecuzione del 1988.