Gaspare Spontini (1774 – 1851): “Fernand Cortes ou la conquète du Mexique” (1809)

Opera in tre atti su libretto di Victor-Joseph-Étienne de Jouy e Joseph-Alphonse d’Esmenard. Dario Schmunk (Fernand Cortes), Luca Lombardo (Tèlasco), Alexia Voulgaridou (Amazily), David Ferri Durà (Alvar), Gianluca Margheri (Moralez), André Courville (Grand Prêtre), Lisandro Guinis (Officier Espagnol), Leonardo Melani (Officier Mexicain), Davide Siega (Marin), Davide Ciarrocchi e Nicolò Ayroldi (Deux prisonniers espagnols). Orchestra e coro del Maggio musicale fiorentino, Lorenzo Fratini (Maestro del coro), Jean-Luc Tingaud (direttore d’orchestra), Cecilia Ligorio (regia), Massimo Checchetto e Alessia Colosso (scene), Vera Pierantonio Giua (costumi), Maria Domenech (luci), Compagnia Nuovo balletto Toscana, Alessio Maria Romano (coreografie). Registrazione: Firenze: Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, 16-20 ottobre 2019. 2 DVD/ BluRay Dynamic

Il 1809 vede l’Impero francese al massimo della sua gloria. Il trionfo  di Austerlitz sulla coalizione austro-russa (1805) e il successivo annientamento della Prussia  con le vittorie di Jena e Auerstädt aveva reso Napoleone il vero padrone dell’Europa. Abilissimo nello sfruttare le arti allo scopo di celebrare i propri trionfi l’Imperatore aveva trovato il suo perfetto cantore nel marchigiano Gaspare Spontini. Dopo il trionfo de “La Vestale” (1807) Spontini riceve la commissione per una nuova opera grandi proporzioni e di taglio celebrativo.  Abbandonate le più consuete ambientazioni classiche, l’ispirazione guarda  alla conquista del Messico da parte di Cortez e alla fine dell’impero azteco. Quello che colpisce nel libretto di Victor-Joseph-Étienne de Jouy e Joseph-Alphonse d’Esmenard è la totale mancanza di problematicità. Che la conquista delle Americhe sia stato un fatto doloroso e che abbia comportato il totale annichilimento di civiltà millenarie compariva già nei melodrammi di soggetto americano che  fin dall’inizio del XVIII secolo avevano guardato alla spedizione peruviana di Pizarro, che ponevano al centro la figura tragica e dolente dell’ultimo Inca Montezuma. Nel libretto dell’opera spontiniana tutto  contribuisce alla celebrazione festosa di Cortez nella sua inarrestabile marcia di conquista con il sostegno spontaneo delle stesse popolazioni native. Difficile immaginare allegoria più esplicita per Bonaparte trionfatore ma è iinegabile come questo generi un certo stridore con la nostra sensibilità. Non aiuta poi la totale assenza di un senso teatrale di un libretto dei cui difetti era  ben conscio lo stesso Spontini che vi ritornò più volte nel corso degli anni cercando di infondervi maggior vita.
Al contrario, la musica è idi qualità altissima. Spontini crea un lavoro di aulica grandiosità, quasi oratoriale nella preponderante importanza del coro. Il compositore si muove a cavallo di due mondi, da un lato si sente il legame con la tradizione precedente, con Gluck e con Salieri mentre sull’altro fronte sono evidenti le anticipazioni del futuro romanticismo classicista francese di Berlioz e perfino – si pensi alle danze che aprono il III atto – a Saint-Saens. La vocalità è costruita su declamati ariosi che fondono autorevolezza d’accento a bella ispirazione melodica. Lo schema dell’opera anticipa – in primis ma non solo per la centralità di cori e danze – schemi formali che saranno codificati nel Grand-Opéra.
Allestire oggi un titolo come questo, specie se si intende proporlo nella sua integrità e secondo i più aggiornati criteri filologici, è sfida non di poco conto per qualunque teatro. Il Maggio Musicale Fiorentino non ha solo raccolto la sfida,  ma l’ha anche vinta.
Lo spettacolo che ha inaugurato la stagione lirica 2019 ci presentaca l’edizione originale dell’opera, quella rappresentata nel 1809 con la presenza di Napoleone.
Jean-Luc Tingaud, subentrato al previsto Fabio Luisi, fornisce una lettura di grande coerenza stilistica. La complessità delle architetture sonore, impone al direttore una grande abilità di concertazione e Tingaud riesce nell’impresa. Le scelte ritmiche e agogiche sono molto puntuali e colgono sia il passo implacabile delle scene guerresche sia la stasi di improvvise oasi liriche. Una lettura che pur privilegiando –  – l’architettura complessiva non manca  di evidenziare il raffinato gusto timbrico e cromatico di Spontini. L’orchestra e il coro del Maggio Musicale si disimpegnano con ammirevole sicurezza nelle impegnative prove cui sono chiamati a cimentarsi e si confermano tra le migliori compagini italiane.
Nel ruolo del titolo Dario Schmunk si è chiamato  a cimentarsi con una parte estremamente impegnativa e alquanto avara di soddisfazioni. La scrittura di Cortes, alquanto centrale, basata su un canto dominato da aulici declamati non è certo l’ideale per la natura lirica della voce di Schmunck, che si conferma artista di grande esperienza e  sensibilità. Il cantante fraseggia con maestria, sa evidenziare le proprie doti e compensare i propri limiti, evitando di forzare la voce anche dove la scrittura lo porterebbe verso un canto più drammatico. Ne esce  un personaggio credibile pur partendo da condizioni non ideali.
Scoperta da Riccardo Muti e poi quasi scomparsa dalle scene italiana la greca Alexia Voulgaridou ha trovato a Firenze un palcoscenico propizio. Nei panni di  Amazily sfrutta la tessitura centrale del ruolo, per lei particolarmente congeniale e fa valere un forte temperamento drammatico e notevoli doti di fraseggiatrice. La parte è molto lunga e decisamente pesante e in più punti si nota una tendenza a giocare in difesa, più che comprensibile.
Luca Lombardo (Télasco) è un cantante elegante ma la voce, con una emissione nasale rendeo il canto poco piacevole nonostante l’intensità di accento. Gianluca Margheri è un Moralez vocalmente e teatralmente di grande impatto. David Ferri Durà canta con bel lirismo la parte di Alvar mentre il bel timbro di André Courville non nasconde la mancanza di quella ieraticità necessaria per rendere la figura del Gran Sacerdote. Positive tutte le parti di fianco.
Il compito più impervio in un’opera come questa è forse quello del regista. Cecilia Ligorio fa quanto è più possibile con il fragilissimo libretto. La vicenda è come vissuta attraverso i ricordi di Moralez che tornato in patria trascrive su un diario le vicende degli atti giovanili, il testo del diario – in aulico italiano cortigiano del XVI secolo – compare a tratti sullo sfondo della scena a scandire i passaggi di scena. Le riflessioni a posteriori del vecchio guerriero permettono di introdurre qualche riflessione sulla tragicità della Conquista. L’ambientazione è rigorosamente d’epoca con costumi – molto belli – di Vera Pierantonio Giua che ci immergono nel contesto storico dell’opera. Sul piano estetico prevalgono colori freddi e metallici per gli invasori e tinte più calde e morbide per gli indigeni. La regia fa il possibile per dare maggior movimento allo statico libretto e se il miracolo non riesce bisogna riconoscere che era difficile far meglio. Le coreografie di Alessio Maria Romano per la Compagnia nuovo balletto di Toscana alternano momenti più riusciti – specie nel I atto – ad altri più sottotono come nella grande scena del sacrificio. Spettacolo in ogni caso assolutamente da vedere.