Giovanni Paisiello (1740 – 1816): “Fedra” (1788)

Dramma per la musica dell’Abate Salvoni. Raffaella Milanesi (Fedra), Artavazd Sargsyan (Teseo), Anna Maria Dell’Oste (Aricia), Caterina Poggini (Ippolito), Learco (Piera Bivona), Diana (Esther Andaloro), Sonia Fortunato (Tisifone), Salvatore D’Agata (Mercurio), Giuseppe Lo Turco (Plutone). Orchestra e coro del Teatro Massimo Bellini di Catania. Jérôme Correas (Direttore), Ross Craigmile (Maestro del coro), Leonardo Catalanotto (Maestro al cembalo). Registrazione: Teatro Massimo Bellini di Catania, gennaio 2016. 2 CD Dynamic CDS7750
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Del tutto scomparsa dalle scene teatrali e protagonista di un’unica incisione realizzata nel 1958 sotto la direzione di Angelo Questa su una partitura incompleta e non sempre rispettosa del dettato originale, la Fedra di Giovanni Paisiello è stata ripresa nel mese di gennaio 2016 al Teatro Massimo Bellini per celebrare il bicentenario della morte del compositore di Taranto, ricorrenza che, peraltro, è passata quasi del tutto inosservata nel mondo musicale. Per l’occasione è stata realizzata un’edizione critica dell’opera che Paisiello compose in uno dei periodi più intensi della sua vita dal punto di vista creativo. Ritornato a Napoli nel 1784, dopo i trionfi in Russia, Paisiello, presso la corte di Ferdinando IV, dove rivestiva il ruolo di maestro di cappella, compose la maggior parte della sua produzione tra cui La grotta di Trofonio (1785), La modista raggiratrice (1785), L’amor contrastato (1788), diventato famoso con il titolo La molinara, su libretto di Palomba, la cui aria Nel cor più non mi sento dalla melodia semplice e cantabile, diede vita alle variazioni per pianoforte di Beethoven. Al 1788 risale anche la prima rappresentazione al Real Teatro di San Carlo di Napoli di Fedra, opera che Paisiello compose su un libretto che l’abate Luigi Barnabò Salvoni aveva ricavato, rielaborandolo, dal dramma di Carlo Innocenzo Frugoni messo in musica da Tommaso Traetta trentun anni prima, nonostante il librettista genovese non venga citato nell’avvertimento iniziale del libretto dove vengono elencate le fonti:
“Il soggetto di questo dramma fu già trattato dal greco Euripide che intitolò la sua tragedia – Ippolito Coronato – e felicemente espose sul teatro d’Atene l’anno quarto dell’Olimpiade ottantesima settima[La tragedia fu rappresentata per la prima volta in occasione delle Grandi Dionisie del 428 a. C. ad Atene], sendo arconte Epaminone. Bevve alla fonte di Euripide il Franzese Racine, e profittando delle greche traccie [sic] produsse la sua Fedra, e aggiungendovi l’episodio degli amori di Ippolito, e d’Aricia, maneggiò questo argomento con tutte quelle grazie che erano sue proprie, e che lo costituirono la delizia delle scene di Francia, e un oggetto di ammirazione presso le Nazioni più colte. Sulle idee di Racine ordì un altro Scrittore Franzese il Dramma d’Ippolito, ed Aricia, effettuando sulla Scena ciò che la favole accennano di Teseo, e ciò che Euripide, e Racine fanno sapere al Popolo col soccorso dei racconti, fingendo inoltre Ippolito preservato dal favor di Diana, lo che ha il suo fondamento nel libro XV delle Metamorfosi d’Ovidio. Colla scorta, e coll’ajuto di tutti tre gli enunciati, io pure ho tessuta l’Opera mia, a cui dato ho il nome di Fedra sul giudiziosissimo esempio di Racine; giacché Fedra è qui protagonista, e troppo strano sarebbe l’adattarle un titolo dedotto dalle sole cagioni episodiche”.
A proposito della scelta di tacere il nome di Frugoni si legge in una postilla aggiunta in nota al suddetto avvertimento nell’edizione a stampa del libretto:
“Non s’intende per qual ragione il Sig. Abate Salvoni autore di questo Dramma, da noi in qualche parte cangiato per comode delle nostre scene, abbia tralasciato di rammentare fra coloro, che trattarono questo argomento, l’immortale Frugoni”.
Scarse sono le notizie intorno al Luigi Salvoni, che, nato a Parma nel 1723 e morto nel 1784, aveva pubblicato nel 1777 le sue Opere poetiche, da cui è tratto il libretto utilizzato da Paisiello.  Ancora oggi non è possibile spiegare le ragioni per cui Salvoni abbia taciuto del modello di Frugoni, anche se qualche critico ha azzardato l’ipotesi che l’abbia fatto per intento polemico; si può affermare, tuttavia, che il suo libretto è una rielaborazione originale di quello del Frugoni il quale si era ispirato al libretto di Hippolyte et Aricie che Simon-Joseph Pellegrin aveva scritto per Rameau (1733), non solo per gli aspetti contenutistici, come la contaminazione del  mito di Fedra con quello della discesa di Teseo agli Inferi insieme con l’amico Piritoo per rapire Proserpina, ma anche per quelli formali come la divisione in cinque atti e la presenza delle danze secondo il modello della Tragédie-Lyrique francese. Inoltre vengono mantenuti nella tradizione librettistica che fa capo al testo di Pellegrin il personaggio di Aricia che già nella Phèdre di Racine (1677) è una principessa ateniese di sangue reale e il lieto fine con Ippolito che, salvato da Diana e di ritorno ad Atene, si sposa con Aricia. In base alla trama stabilizzatasi nella librettistica settecentesca, Fedra, infatti, dopo aver tentato di sacrificare a Diana Aricia e dopo aver insidiato, durante il periodo di assenza del marito Teseo, disceso agli Inferi insieme con l’amico Piritoo per rapire Proserpina, il figliastro Ippolito dal quale ottiene un netto rifiuto, lo accusa di fronte al marito ritornato sano e salvo dal suo viaggio di averla sedotta. Teseo, allora, fa imbarcare su una nave il figlio che, durante il tempestoso viaggio, sta per essere ucciso da un mostro marino, quando Diana, vero e proprio deus ex machina, interviene non solo salvando Ippolito, ma riportandolo ad Atene, mentre Fedra, rosa dal rimorso, dopo aver confessato l’inganno, viene inghiottita dagli Inferi. Salvoni, pur mantenendosi fedele a questa trama, ridusse i cinque atti a due ed eliminò le danze, tipiche della tradizione francese, dando vita così a un classico libretto da opera seria italiana che il compositore tarantino rese più snello operando dei tagli. L’edizione critica dell’opera restituisce alla storia del teatro musicale la conoscenza di un Paisiello inedito, quasi sconosciuto, dal momento che la sua popolarità è stata sempre legata semplicemente alla produzione comica o semiseria. Notevole è il dispiegamento di mezzi espressivi da parte del compositore di Taranto che fece uso di tutti i colori offertigli dalla tavolozza strumentale e vocale dell’epoca. Particolarmente curate sono le sezioni dedicate all’orchestra a partire dalla sinfonia in forma-sonata con due temi contrastanti del quale il primo si apre con un perentorio arpeggio e il secondo grazioso tutto giocato in un raffinato dialogo tra oboi e flauti, fino alle lunghe introduzioni delle arie e delle scene, dove si nota la volontà del compositore di rappresentare i sentimenti dei personaggi, ma anche le diverse situazioni drammatiche. Ciò è evidente nell’introduzione strumentale della scena degli Inferi, scura e inquietante nella scelta del re minore e nello stesso tempo nel ritmo puntato da ouverture alla Francese, mentre non manca nemmeno in questo caso il contrasto tra gli archi e i fiati. Proprio a quest’ultimi viene spesso affidato da Paisiello il compito di dialogare con le voci caratterizzate da una scrittura piena di colorature e di elementi che rimandano allo stile per castrati come si può vedere, per esempio, nel salto di decima presente nella prima aria di Ippolito, Contro ogni nembo irato.
Passando all’incisione realizzata dall’etichetta Dynamic dal vivo al Teatro Massimo Bellini di Catania nel mese di gennaio del 2016, si ha l’impressione di trovarci di fronte ad una produzione rispettosa della partitura e delle caratteristiche stilistiche dell’opera settecentesca. Ciò è evidente già nella concertazione del direttore d’orchestra, oltre che clavicembalista, francese Jérôme Correas, autentico specialista di questo repertorio come si può notare, infatti, sia nella  buona gestione delle dinamiche che nella corretta e a volte briosa scelta dei tempi grazie alla quale la performance non scade mai in quella noia che una partitura così lunga e lontana dal nostro modo di concepire il teatro può generare; la sua è una concertazione rispettosa delle voci che non solo non vengono mai soverchiate, ma che sembrano dialogare con gli strumenti solisti le cui parti emergono nel corso dell’esecuzione. Il cast vocale appare disomogeneo. Nel ruolo del titolo il soprano Raffaella Milanesi è protagonista di una prova complessivamente decorosa anche perché l’artista dispone di una bella voce soprattutto nel registro medio-acuto. Appare evidente, tuttavia, una tendenza a coprire e intubare l’emissione nella zona medio grave. Anna Maria dell’Oste (Aricia) mostra un colore un po’ acidulo nel timbro e acuti tendenzialmente striduli soprattutto nella parte iniziale dell’aria Se nell’amar chi l’ama nella quale, però, evidenzia una buona padronanza del fraseggio e una discreta tecnica nel canto di coloratura. Buona, nel complesso, anche la prova di Caterina Poggini nel ruolo di Ippolito che, concepito per un castrato, presenta alcune difficoltà tecniche che mettono a dura prova la cantante la quale può contare su un buon fraseggio. Del pari convincente sul piano interpretativo è la prova di Artavazd Sargsyan, particolarmente a suo agio nel rappresentare gli affanni e le pene di Teseo agli Inferi. Decisamente modeste le prove di  Esther Andaloro, una Diana dalla voce intubata e tesa,  Piera Bivona (Learco) in affanno  nella sua aria Pietà non merita. Dello stesso livello le performances di: Sonia Fortunato (Tisifone), Salvatore D’Agata (Mercurio) e Giuseppe Lo Turco (Plutone). Buona, infine, la prova del coro preparato da Ross Craigmile.