Hector Berlioz 150 (1803-1869): “Béatrice et Bénédict” (1862)

Opéra comique in due atti su libretto di Hector Berlioz. Stéphanie d’Oustrac (Béatrice), Paul Appleby (Bénédict), Sophie Karthäuser (Héro), Lionel Lhote (Somarone), Katerina Bradić (Ursule), Frédéric Caton (Don Pedro), Philippe Sly (Claudio). The Glyndebourne Chorus, Jeremy Bines (maestro del coro), London Philarmonic Orchestra, Antonello Manacorda (direttore). Laurent Pelly (regia e costumi), Barbara de Limburg (scene), Duane Schuler (luci), Agathe Mélinard (adattamento dialoghi).Registrazione: Glyndebourne Opera Festival 2016. 1 DVD Opus Arte OA 1239D

Non tutte le ciambelle vengono con il buco e anche un regista di grande talento come Laurent Pelly può mancare uno spettacolo. E’ quello che accade in questa produzione di “Béatrice et Bénédict”, la deliziosa opéra-comique che l’ormai anziano Hector Berlioz – il saper ridere è in molti casi il sigillo della maturità di un grande artista – ha liberamento tratto da “Molto rumore per nulla” di Shakespeare allestita in occasione dell’edizione 2016 del Festival di Glyndebourne. Pelly di solito mostra grande fantasia e grande senso del teatro mentre qui si auto-imprigiona in un’idea che fa fatica a svolgere. Punto di partenza è l’impressione che tutti i personaggi siano chiusi in se stessi, come collocati dentro scatole che impediscono la comprensione del mondo esterno e quindi l’idea è di costruire integralmente la scena con grandi scatole che si compongono e scompongono ricreando i vari ambienti. Solo che lo spunto originale – che non mancava d’interesse – diventa qualche cosa di eccessivamente invasivo di fatto riducendo al movimento degli elementi scenici quasi tutto lo sviluppo dell’opera ed è solo nel II atto, quando la scena si svuota di tutti gli elementi di disturbo, che si apprezza una maggior teatralità. Inoltre per un’opera così gioiosa un po’ più di colore non sarebbe stato inopportuno mentre tutto qui è giocato su una serie cromatica che va dal bianco al nero attraverso le varie sfumature di grigio che nessun elemento viene a interrompere e che spande un plumbeo velo su tutta la vicenda. I costumi sono moderni e collocano l’ambientazione nella prima metà del Novecento. Forse l’idea era quella di evocare un film in bianco e nero ma la resa finale risulta tutt’altro che coinvolgente. Qualche perplessità suscita anche la recitazione, bella e naturale per i ruoli seri ma decisamente troppo caricata in senso grottesco per Somarone e per il coro.
Il video merita però di essere visto – e non solo ascoltato – per la straordinaria prova d’artista fornita da Stéphanie d’Oustrac come Béatrice. Abbiamo già avuto occasione di apprezzare la cantante bretone per le sue qualità vocali e interpretative – ad esempio ne “L’Heure espagnole” scaligera del 2016 – ma qui riesce veramente a superarsi. Il personaggio offre enormi potenzialità e la d’Oustrac riesce a coglierle al meglio. La voce da mezzosoprano chiaro, sicura nel registro acuto, morbida e femminile nei centri è perfetta per il ruolo ma la qualità del canto è solo una delle componenti della riuscita complessiva. La d’Oustrac è soprattutto un’interprete straordinaria che si esprime con un fraseggio curatissimo e mutevole, capace di cogliere ogni contradditoria sfumatura di questa adorabile bisbetica. Così passa con assoluta naturalezza dai rabbuffi con Benedetto – è da sentire con quanta energia carichi le consonanti con il crescere del furore – all’estatica dolcezza della grande aria del II atto. L’attrice poi non è da meno, un volto autenticamente espressivo e una mimica facciale mobilissima – che la regia televisiva sfrutta al meglio con insistiti primi piani – degna di un’attrice cinematografica così che la sua Beatrice non sfigurerebbe affatto al fianco di quella di Emma Thompson nell’indimenticabile film di Kenneth Branagh. Gli altri interpreti non si pongono alla pari della protagonista ma offrono prestazioni decisamente valide. Paul Appleby con la sua voce chiara e agile si trova perfettamente a suo agio nella scrittura vocale berlioziana. Il tenore inglese sfoggia bella musicalità, linea di canto sicura salvo qualche piccola durezza sugli estremi acuti e buone doti espressive. Il suo è un personaggio umano e simpatico, ben reso, cui nuoce solo la vicinanza con una Béatrice così vulcanica. A Sophie Karthäuser manca un po’ la radiosità che il ruolo di Héro dovrebbe possedere ma canta con grande proprietà, linea di canto sicura ed elegante, ottimo controllo di tutta la gamma. Sul piano interpretativo soffre un po’ del taglio fin troppo bamboleggiate dato al ruolo dalla regia. La voce di Katarina Bradić (Ursule) si sposa alla perfezione con quella della Karthäuser contribuendo a una riuscita ottima tanto del sublime duetto che chiude il primo atto quanto del terzetto delle donne del secondo. Lionel Lhote è un Somarone di buone qualità vocali, divertito e divertente e, se certi atteggiamenti sono forse un po’ troppo caricati, la responsabilità è della regia. Frédéric Caton canta con gusto e dispone di buone qualità vocali ma sul piano scenico purtroppo manca del fascino che dovrebbe esercitare Don Pedro. Scenicamente perfetto è invece il Claudio Philippe Sly di bella presenza e con quel tocco di goffaggine che nel ruolo non stona; vocalmente è corretto ma la breve parte non concede molto sul piano del canto. Subentrato all’indisposto Robin Ticciati, Antonello Manacorda dimostra una particolare predisposizione per questo tipo di scrittura. La sua è una direzione, attenta al gioco dei colori – Berlioz è sempre lo straordinario orchestratore che si conosce dai titoli più noti – e delle emozioni, e capace esaltare perfettamente il gusto elegante e raffinato di questa partitura grazie a sonorità belle, piene di charme e di brio. Inutile ribadire la qualità della London Philarmonic Orchestra, sempre superlativa in ogni componente e ottima – ma anche questa non è una sorpresa – la prova del The Glyndebourne Chorus diretto da Jeremy Bines. Nell’opera, eseguita integralmente, si riscontra qualche interpolazione nei dialoghi parlati – ad opera di Agathe Mélinand – per altro non in contrasto con quella che doveva essere la prassi esecutiva del genere.