“I Vespri Siciliani” al Teatro Valli di Reggio Emilia

Reggio Emilia, Teatro “Valli”, Stagione lirica 2013/2014
“I VESPRI SICILIANI”
Dramma in cinque atti.Libretto di Eugène Scribe e Charles Duveyrier.
Versione italiana di Arnaldo Fusinato
musica di Giuseppe Verdi
Guido di Monforte MANSOO KIM
Il sire di Béthune ALESSANDRO BUSI
Il conte Vaudemont CRISTIAN SAITTA
Arrigo LORENZO DECARO
Giovanni da Procida ROBERTO SCANDIUZZI
La duchessa Elena SOFIA SOLOVIY
Ninetta ELISA BARBERO
Danieli ORESTE COSIMO
Tebaldo JENISH YSMANOV
Roberto COSTANTINO FINUCCI
Manfredo RICCARDO GATTO
Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna
Coro Claudio Merulo di Reggio Emilia
Direttore Stefano Ranzani
Maestro del coro Martino Faggiani
Regia Davide Livermore
Scene Santi Centineo
Costumi Giusi Giustino
Luci Vladi Spigarolo
Coreografie Luisa Baldinetti, Cristina Banchetti, Davide Livermore
Coproduzione Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, Fondazione Teatri di Piacenza
Fondazione Teatro Comunale di Modena
Dall’allestimento del Teatro Regio di Torino, OLBE-ABAO Asociacion Bilbaina de Amigos de la Opera Bilbao, Teatro Nacional de Sao Carlos de Lisboa Reggio Emilia, 8 novembre 2013
È incerto quale sia la funzione di un critico teatrale. A parer mio dovrebbe essere quello di riflettere sulle categorie estetiche con cui si guarda uno spettacolo. Naturalmente il lettore è autorizzato a dissentire e a voler unicamente sapere se lo spettacolo è piaciuto o meno al critico. Considerando che sul web di spazio ce n’è in abbondanza, spero che mi si perdonerà se voglio cogliere l’occasione di questa ripresa dell’allestimento di Davide Livermore dei Vespri verdiani per fare alcune considerazioni sul ruolo della regia, che spero possano essere stimolanti per il lettore. Al solito, prendendo umilmente esempio dal Manzoni, esorto chi sia interessato unicamente ad un giudizio sui cantanti a saltare senz’altro agli ultimi paragrafi.
Quello che nel secondo Novecento critica e direttori artistici hanno chiesto ai registi è di “trovare una chiave” per interpretare sotto una luce una qualche opera drammatica del passato (giacché di scriverne di nuove non se ne parla). Il regista dovrebbe cioè trovare quale sia a parer suo il “nucleo” del dramma onde renderlo esplicito al pubblico e attraverso quello illuminare l’intera opera. Il modo migliore per un regista di mettersi in rilievo è senz’altro di affidare questa “esplicitazione del nucleo drammatico” alla scenografia e ai costumi, così che la critica sappia immediatamente ciò di cui parlare. Se si ritiene che il problema siano i soldi, se ne faranno piovere a centinaia, se il problema è il tempo si metterà un bell’orologio, ecc… Che questo didatticismo sia un modo di intendere la regia un po’ antiquato e non rispondente alla complessità del nostro mondo post-ideologico è una considerazione abbastanza sprecata, se si considera l’età media avanzatissima dei registi, dei direttori artistici e del pubblico dell’opera… Il rischio di questa impostazione è quello di banalizzare la polisemia del testo letterario e musicale con una lettura a senso unico. D’altra parte, un regista che volesse invece rispettare la complessità dell’opera e fornire allo spettatore non risposte preconfezionate ma gli strumenti per porsi delle domande e sarebbe senz’altro accusato “non aver osato” o magari di essere conservatore o poco chiaro. È chiaro quindi la ragione per cui i registi preferiscono senza esitazione correre il primo di questi due rischi.
Per qualche motivo – la cui validità deve certamente essere apparente alle generazioni passate ma che è piuttosto incomprensibile alla mia – si considera generalmente che una regia per essere innovativa (poiché ogni regista deve fingere di avere questa aspirazione anche quando sta semplicemente copiando precedenti allestimenti) debba essere in abiti contemporanei. In questo modo si mostra al pubblico che le vicende rappresentate hanno un valore anche per noi contemporanei. Altrimenti il pubblico non lo capisce. Al cinema il pubblico può emozionarsi per Leonardo Di Caprio e Kate Winslet sul Titanic, ma a teatro anziché “Titanic” sulla nave bisogna scrivere “Costa Concordia”, così diventa un allestimento “scomodo” e si scandalizzano le borghesi impellicciate. Gli italiani del tempo di Verdi ascoltando “Va’, pensiero” comprendevano immediatamente che si stava parlando di loro e dell’Austria, ma i registi non credono che il pubblico di oggi sia in grado di rispecchiare sé stesso nel dramma, se non lo si riveste dei panni dell’attualità. Una gran parte delle regie “moderne” di oggi si basano quindi su un processo di analogia: come sarebbe ai nostri giorni? Ad esempio: se Rigoletto fosse vivo oggi chi sarebbe? Bruno Vespa. E allora vesti Rigoletto da Bruno Vespa. Per la verità a me sembra che debba essere Rigoletto una chiave di lettura per interpretare Bruno Vespa piuttosto che non Bruno Vespa una chiave di lettura per interpretare Rigoletto. Rigoletto è l’archetipo. Bruno Vespa la brutta copia. L’esempio è stupido ma è calzante per mostrare i limiti di un tale approccio: Rigoletto è un personaggio molto più complesso che non semplicemente un baciapile dei potenti. Se nella prima parte del primo atto un travestimento da Bruno Vespa potrebbe essere un’analogia in qualche modo congruente, in tutto il resto dell’opera sarebbe insopportabile. Le analogie modernizzanti si rivelano spesso essere una coperta troppo corta.
Veniamo quindi all’allestimento in questione. Davide Livermore è un uomo molto brillante che comprende a fondo la drammaturgia musicale verdiana, come dimostrato al di sopra di ogni dubbio dal delizioso documentario W Verdi, Giuseppe, realizzato insieme ad Alfonso Antoniozzi per la Televisione della Svizzera Italiana, in cui, tra gli altri personaggi, interpreta un esilarante servilissimo Francesco Maria Piave, che meriterebbe di essere studiato a scuola. Questa adesione alle strutture musicali verdiane è ciò che rende questo spettacolo non noioso. Il che è uno dei più grandi complimenti che si possa fare ad un regista, specie in un’opera interminabile come i Vespri (e specie quando non è cantata proprio alla perfezione…). Ma, prevedibilmente, la modernizzazione cui fa ricorso Livermore funziona solo a tratti.
Lo spettacolo si basa su due analogie guida. La prima è la mafia, che prende il posto del domino dei francesi sul suolo siciliano nel XIII secolo. Si tratta però di due situazioni piuttosto diverse: il passaggio da un nemico esterno chiaramente riconoscibile ad un nemico interno indistinguibile dal popolo siciliano potrà anche essere concettualmente stimolante ma rende quasi incomprensibili molti passaggi di questo libretto, che è già piuttosto fumoso di suo. Non essendo il coro chiaramente diviso in due fazioni, nella scena del “ratto delle siciliane” non è chiaro chi stia violentando chi. La presenza della mafia, inoltre, è molto più presente sul programma di sala che sul palcoscenico. La prima scena, in cui Elena, facendo un’orazione funebre per suo fratello morto ucciso, esorta il popola alla rivolta e subisce la censura del prete e dei giornalisti che cercano di strapparle il microfono, è senza dubbio molto bella e potente. Ma nel resto dell’opera questa prima analogia viene piuttosto dimenticata e se ne fa invece largo una seconda: il berlusconismo. Su questo punto, non c’è alcun dubbio che l’irritante spensieratezza festaiola dei francesi di Guido di Monforte del libretto di Scribe, contrapposta alla tragica serietà di Elena e Procida, appartenga allo stesso mondo del Drive In,  dei bunga-bunga, ecc… e le scene caratterizzate dalla presenza del caravanserraglio mediatico di ballerine e giornalisti compiacenti sono anch’esse fra le più memorabili di questa messinscena.
Ma con una tale impostazione le inquietanti zone d’ombra del libretto originale finiscono per essere trascurate.  L’interesse del dramma di Scribe risiede nel fatto che i confini morali dei suoi personaggi, e specialmente dei suoi principali antagonisti, Guido di Monforte e Giovanni da Procida, sono tutt’altro che nettamente definiti. Monforte si è comportato con crudeltà verso i siciliani in passato, ma nell’azione che il pubblico vede è guidato solo da un ferito affetto paterno, che lo porta ad incredibili atti di clemenza e che segnano infine la sua rovina. Per contro, il rivoluzionario Procida, che dovrebbe essere il Mazzini della situazione, lungi dall’essere uno stinco di santo, si rivela essere un freddo calcolatore capace di incitare i francesi allo stupro delle sue conterranee pur di provocare il popolo siciliano alla rivolta e capace di sfruttare il sincero affetto di Elena e Arrigo per i suoi fini politici. Ma, identificando Monforte con la mafia, la regia di Livermore finisce per fare apparire assolutamente “buono” Procida e assolutamente “cattivo” Monforte, appiattendo notevolmente la riflessione politica e storica che intendevano stimolare Verdi e Scribe sui confini tra morale e politica e rendendo i personaggi principali molto meno interessanti delle comparse e dei ballerini, che in questo allestimento  finiscono per essere i veri protagonisti.
Un ultimo appunto personale sulla violenza mimata in palcoscenico. In questa regia i francesi (o i mafiosi) elargiscono pugni e ceffoni a iosa al popolo siciliano, che per parte sua non risponde con una violenza feroce, come previsto dal libretto, ma con una criptica azione parlamentare che nelle ultime battute fa crollare a terra tutti e quattro i protagonisti, sia l’oppressore che i rivoltosi.  Se l’impostazione dello spettacolo è, come qui, realistica, pugni e ceffoni dati a metri di distanza hanno un effetto comico. O si trova una maniera per renderli realistici o meglio affidarsi alla violenza psicologica prevista dal libretto. Lo stesso dicasi per gli atti sessuali. Ma riconosco che in ambo i casi la soglia del ridicolo possa variare da spettatore a spettatore.
A parte le riserve succitate, si tratta di uno spettacolo scorrevole e non noioso, che ben meritava una ripresa. Magari con un cast lievemente migliore. Lorenzo Decaro, già corista in Scala e ora ubiqua presenza nei ruoli di tenore drammatico nei teatri italiani, può essere preso ad esempio di quanto i teatri lirici di oggi pensano di poter tirare la corda con il pubblico. Decaro fa tutte le note ma con una voce che vuole essere grossa ed invece è strangolata, con vocali diseguali e una linea di canto interrotta. Il pubblico ormai subisce tali interpreti che hanno il raro merito di “fare tutte le note”, nonché quello di cantare molto forte, come un prezzo da pagare per poter sentire certe opere. Personalmente ritengo invece che ci sia di meglio e che, se proprio di meglio non ci fosse, bisognerebbe astenersi dall’allestire certi titoli. Comunque, l’arte di Lorenzo Decaro ha offerto al pubblico dell’8 novembre un delizioso momento di catarsi collettiva. Nell’ultimo atto Verdi, in un momento di particolare fiducia o perfidia verso i tenori, ha scritto per Arrigo un “Addio!” che arriva a toccare il Re sopra al Do acuto. Sarebbe stato prudente riscrivere un tale passaggio adeguandosi alle reali possibilità dell’interprete ma naturalmente, siccome i melomani conoscono a memoria queste opere verdiane dai dischi, oggi questa non è considerata un’opzione valida. Il signor Decaro esegue quindi il passaggio producendosi in una infelice nota strozzata. Il pubblico mormora un po’. Il pezzo procede e finisce nel silenzio. Una voce isolata grida: “Bravo!”. Alcuni spettatori sghignazzano. Un’altra voce risponde con le ben note, fatidiche parole: “Ma chi sei? Suo padre?”. Il teatro intero erompe in una fragorosa risata liberatoria. A onore del signor Decaro bisogna dire che, nonostante questo incidente, ha concluso l’opera mantenendo lo stesso (ancorché discutibile) livello. C’è da sperare che i cantanti invitino i loro sostenitori ad una maggiore prudenza… Da un punto di vista teatrale, non c’è niente di cui parlare: quando è costantemente preso dal dubbio se il cantante ce la farà ad arrivare in fondo (all’opera, all’aria, alla frase), il pubblico non riesce a concentrarsi sul personaggio. Nel ruolo di Monforte, al posto dell’annunciato Claudio Sgura, per motivi non noti a chi scrive, c’era il coreano Mansoo Kim, che all’aspetto si sarebbe detto piuttosto il fratello minore di Arrigo che non il padre. La pronuncia è generalmente buona. Le note basse sono ingolate nella tipica maniera coreana. I centri e gli acuti sono certamente spesso grandi e brillanti, ma si tratta di suoni isolati. Il legato è una chimera irraggiungibile o forse nemmeno ricercata. Di un personaggio nemmeno l’ombra. Trionfatore della serata è stato invece Roberto Scandiuzzi nel ruolo di Procida, che ha esibito una bella voce calda e profonda ma non artefatta, una dizione chiarissima e una nobile linea di canto. Ma l’augurio è che questa ripresa venga ricordata soprattutto per l’Elena di Sofia Soloviy, soprano ucraino che vive in Italia da diversi anni ma che, nonostante la vittoria di diversi concorsi, sembra non riuscire ad ottenere se non scritture sporadiche. È un vero peccato perché si tratta di una voce molto bella e naturale, non corposa ma totalmente “fuori”, che riesce a passare l’orchestra con grande facilità in ogni zona della sua estensione, dalle note di petto ai centri agli acuti e sovracuti, cui si accompagna una pronuncia eccellente e chiaramente intelligibile. Una voce ideale per le caratteristiche drammatiche e “d’agilità” del ruolo di Elena, che riesce a veicolare i sentimenti più accesi come quelli più intimi. Fra i comprimari si segnala la gradevole voce di tenore di Oreste Cosimo (Danieli). Buona la prova del Coro Claudio Merulo (in realtà il Coro del Regio di Parma trapiantato) diretto da Martino Faggiani. Sul podio Stefano Ranzani ha diretto l’Orchestra dell’Emilia-Romagna senza particolari finezze ma senza cadute. P.V.Montanari  Foto A.Anceschi