Ilva Ligabue (1932 – 1998): un ritratto

Ilva Ligabue (Bagnolo in Piano, 23 maggio 1932 – Palermo, 17 agosto 1998)
Ho svegliato la campionessa di sonno: “La sua telefonata mi ha liberata da un incubo punto Sognavo di essere in una stanza strettissima senza uscita. Soffro di claustrofobia e da quella prigione dovevo uscire. La ringrazio di cuore “. Mi è andata bene: far saltare dal letto di buon mattino una primadonna della lirica, abituata tra l’altro a dormire fino a tardi (non per nulla il direttore d’orchestra Bruno Bartoletti la chiama “il Pasternak del sonno”), era un grosso rischio, tale da mandare a monte qualsiasi intervista. Ilva Ligabue mi è stato invece riconoscente, anche perché l’incubo segnava l’inizio di quell’emicrania che la tormenta da anni. “Il dolore va affrontato ai primi sintomi”, mi spiega, “Lo posso vincere con qualche pasticca. Altrimenti è un guaio. Frugoni dice che ho lo stesso male di sua moglie, Giulietta Simionato, la quale mi ha consigliato a sua volta una dieta molto efficace “.Pur mancando solo qualche giorno alla “prima” virgolette di Otello, con cui si inaugura la stagione del Teatro dell’Opera di Roma, la Ligabue appare tranquillissima: ” Sono felice di interpretare Desdemona, un personaggio a me congeniale. L’ho sentito vicino al mio carattere fin dalla prima volta che mi fu affidato, nel 1962 a Palermo accanto a Tito Gobbi e a Mario Del Monaco, e poi a Trieste, a Firenze, al Vienna”. Parlo con il soprano poco prima di una prova in una sala dell’Hotel Quirinale. Le preme farmi sapere come e dove è nato il suo amore per la lirica: non in una famiglia dalle austere tradizioni musicali, ma in una come tante altre in terra dell’Emilia. Gente che ha il melodramma nel sangue. In casa Ligabue, si cantava a tutte le ore: la madre, il padre muratore, le quattro sorelle di Ilva, uno zio, non
ni, cugini, nipoti, tutti appassionati della lirica.
Il primo palco
Di questo passo la parentela si allarga fino a quasi ad abbracciare l’intero paese di tremila anime, Bagnolo in Piano, a 7 chilometri da Reggio Emilia, lì dove è nata Ilva, oggi famosa da Milano a Chicago, da Londra a New York.
Il suo primo palco sul tronco di un albero nel giardino delle suore del paese. Ilva andava dalle monache ad imparare il ricamo e per riposarsi si arrampicava sull’albero, dove intonava arie e cavatine sentite alla radio; mentre in chiesa le riservavano gli assolo durante le cerimonie più solenni. Nulla di straordinario in tutto questo, anche se l’organista Augusto Bernini, che insegnava alle Magistrali di Reggio Emilia, sentendo quel timbro poderoso, quei fiati che non finivano più, volle darle qualche lezione. “Ero un’allieva ribelle”, ricorda oggi la cantante, “Avevo il carattere di un maschiaccio e poca voglia di solfeggiare”. Fu il  maestro Bernini a mandarla a Milano nel 1947 per l’esame di concorso e ammissione al Conservatorio. “Prima il caos della grande città, poi la marea di candidati e la severa commissione mi avevano causato una specie di shock. Mi  tremavano le gambe quando cantai “Tutte le feste al tempio”. Ero certa che prima di me avrebbero vinto le cittadine: non credetti ai miei occhi quando giunse la lettera con l’esito favorevole. In tre anni, poi, grazie alla scuola di Aureliano Pertile, fui pronta per la Scala “. Esordì nel Pulcinella di Stravinskij. Nel famoso Tempio della Lirica non furono subito affidate alla Ligabue parti di primo piano. Praticamente dovete fare sette anni di tirocinio.” Ho fatto e cantato di tutto “, dice, “E sono grata per questo alla Scala: non lo considero tempo perso. Se fossi andata in provincia a cantare in ruoli importanti non mi sarei formata come lo sono adesso: Alla Scala c’era allora il regista Riccardo Picozzi, che ha avuto con me una pazienza certosina, insegnandomi le cose più elementari, perfino a partire con la gamba giusta. Prima di cantare mi faceva recitare le parti o addirittura eseguirle soltanto nella mimica. Fu per me una scuola dura ma miracolosa. Mi sentivo pronta a tutto. Non temevo più i direttori d’orchestra e i registi, ero a mio agio al contrario accanto a Gavazzeni, Giulini, Gui, Sanzogno, Serafin, Votto, Karajan e la Wallmann. Altra preziosa guida mi è stato Sandro Bolchi. Ora mi manca solo di lavorare con Giorgio Strehler, di cui credo insuperabili la Cavalleria rusticana e il matrimonio segreto. non ne vedo l’ora!”.
Wagner e Mozart
Ha provato nel 1950 la più forte emozione musicale: “Non dimenticherò mai Furtwängler sul podio della Scala per la Tetralogia. Da allora sono una wagneriana convinta, anche se in altre occasioni, come adesso alla vigilia di un “Don Giovanni” a Chicago, mi dichiaro mozartiana fino al midollo. A convertirmi a Wagner ha contribuito Toscanini con il concerto wagneriano alla scala del 19 settembre 1952, il commiato del direttore del pubblico italiano. Proprio in quei giorni Toscanini  venne ad assistere ad una mia prova. Cantavo insieme con Montarsolo, Vinco, Pedani e la Villa  “L’osteria portoghese” di Cherubini. Il maestro ci ascolto, ci applaudi, ed ebbe  bellissime parole di incoraggiamento. Poi per un’ora, restando sempre in piedi davanti a me, parlo di Verdi, dei suoi meravigliosi occhi, qualcosa di sovrumano. Io  intanto fissavo i suoi, quelli di Toscanini. Non li dimentico. Mi avevano ipnotizzato. Ci salutò raccomandando di curare soprattutto la dizione”. La lezione di Toscanini è rimasta impressa nell’anima della cantante sia che si esibisca in opere del Settecento, sia in quelle romantiche e moderne. Dal proprio repertorio la Ligabue esclude però senza riserve i lavori contemporanei, come quelli dodecafonici. “No, no, esclama,” Non vado affatto d’accordo con la dodecafonia. Sarà perché non la capisco, ma la definisco volentieri “brutta”. Sono sicura che se cantassi la musica di Schönberg o di Berg (e dal punto di vista tecnico mi sarebbe possibilissimo), mi rovinerei le corde vocali. No, non è pane per i miei denti!”. Il  soprano ha ormai è tanto modellata secondo le tradizionali maniere sette-ottocentesche che confida di non sapere neppure intonare i motivi più comuni di musica leggera: “Se ci provo stono maledettamente. Ascoltandomi in una canzonetta nessuno userebbe pensare che il canto e la mia professione”. La Ligabue non è uno sgobbona  nei vocalizzi. Le basta una mezz’ora al giorno per mantenere elastica la voce. Per il respiro afferma che le è sempre stata maestra Magda Olivero: “L’anno scorso a Dallas”, ricorda, stetti dietro le quinte durante una Meda ho scoperto ancora qualcosa di nuovo nei suoi respiri “.
Ama lo sport
Per ciò che riguarda l’interpretazione dell’opera segue il proprio istinto, della propria innata musicalità, dei consigli di registi e di direttori d’orchestra. Karajan una volta ha ritenuto perfino superfluo provare l’opera con lei. Bastò dal podio il suo sguardo magnetico per guidare il soprano come lui voleva. “Se riesco a immedesimarmi nel personaggio”, confida la cantante, “so che tutto andrà bene”. Il pubblico non le fa paura ne tantomeno la critica. Si giustifica dicendo che il primo l’ha sempre accolta calorosamente e che la seconda è meglio non leggerla mai. Conferma le opinioni di Toscanini: nuocciono l’artista sia le buone critiche perché le inorgogliscono, sia le cattive perché le avviliscono. “con ciò“, aggiunge prudentemente ” non intendo muovere alcuna appunto ai critici musicali, che hanno il sacrosanto diritto di scrivere quello che penserò. È il loro mestiere”. Il suo, intanto, e quello di cantare nei principali teatri d’Europa e d’America, talvolta in circostanze difficilissime, come quando dieci anni fa non si mosse dai microfoni della radio per una Francesca da Rimini, con il telegramma della morte di sua madre in tasca o come a Firenze, circa 4 anni fa, quando cantò contemporaneamente nel Falstaff le due parti di Nannetta e di Alice in aiuto a Renata Ongaro, alla quale, al pensiero del suo barboncino che si era appena ferito ad una zampa, si erano paralizzate le corde vocali, sicchè apriva la bocca senza emettere un suono. Ama lo sport, ma, dopo le partite a pallavolo in gioventù, l’ha più praticato. Non s’è persa una sola trasmissione delle Olimpiadi e fa il tifo per il Milan. Innamorata di Roma, tanto che da Milano, dove viveva con una sorella, le piacerebbe moltissimo trasferirsi qui. Alla città preferisce comunque la campagna, rifugiandosi nei pochi giorni liberi a Bagnolo. Il 3 novembre scorso per il venticinquesimo di sacerdozio del parroco,
 la Ligabue era lì e ha cantato dalla stessa cantoria di una volta il “Panis Angelicus” di Franck e l’Ave Maria dell’Otello. “In chiesa, alla Messa”, mi dice, “c’era tutto il paese, rossi compresi!”.  (“Incontro con Ilva Ligabue” di Luigi Fait, novembre 1968)