“La Cenerentola” al Carlo Felice di Genova

Genova, Teatro Carlo Felice, Stagione Lirica 2022-2023
“LA CENERENTOLA”
Dramma giocoso in due atti su libretto di Jacopo Ferretti.
Musica
Gioachino Rossini
Don Magnifico MARCO FILIPPO ROMANO
Cenerentola HONGNI WU
Dandini ROBERTO DE CANDIA
Ramiro ANTONINO SIRAGUSA
Tisbe CARLOTTA VICHI
Clorinda GIORGIA ROTOLO
Alidoro GABRIELE SAGONA
Orchestra e Coro del Teatro Carlo Felice di Genova
Direttore Riccardo Minasi
Maestro del Coro 
Claudio Marino Moretti
Regia 
Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi 
Scene e Costumi ispirati all’allestimento di 
Emanuele Luzzati del 1978 a cura della Direzione degli Allestimenti Scenici
Luci 
Luciano Novelli
Allestimento della Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova
Genova, 4 dicembre 2022
La Cenerentola ossia la Bontà in trionfo” è il ventesimo titolo della produzione rossiniana e si pone giusto a metà del catalogo del pesarese. Non è un’operina comica ma, con le sue tre ore di musica, un vertice artistico indiscutibile per cui non le si addice l’inserimento “di comodo”, come riempitivo, in cartelloni sofferenti di attrattive efficaci per il botteghino. I tempi sono duri e le sale stentano a riempirsi, le casse di tutti i teatri sono in sofferenza perenne, in arrivo si odono pure ulteriori aggravamenti. Son tutte valide ragioni per puntare ad allestimenti e a cast da tempi di crisi, valorizzando quindi, per il palcoscenico, eventuali scene e costumi accantonati nei magazzini. Si rivela cruciale, in questi frangenti, per la riuscita dello spettacolo, la direzione musicale. Il Carlo Felice, nell’occasione, ha affidato la bacchetta direttoriale ad un validissimo Riccardo Minasi il quale, già fin dalla sinfonia d’inizio, con piglio risoluto, ha fatto splendidamente risuonare i ritmi e le sonorità di una generosa Orchestra dell’Opera Carlo Felice di Genova in stato di grazia. La sua affettuosa logica è stata determinante nel districare i “nodi avviluppati” e i “gruppi rintrecciati” degli iperbolici concertati, da cui l’opera è incoronata. In questi momenti d’insieme, magistralmente risolti, si è costruito un successo che sarebbe forse sfuggito ad alcune prestazioni vocali individuali. Sirio Restani, alla tastiera di un vivace e fantasioso fortepiano, ha sostenuto a meraviglia i molti recitativi, arricchendoli abbondantemente di trillanti ornamentazioni fuori ordinanza. Il Coro del Carlo Felice, ben istruito dal Maestro Claudio Marino Moretti ha con efficacia reagito alle sollecitazioni del Maestro Minasi e ha compattato l’accordo tra fossa e scena, anche a dispetto di una stucchevole movimentazione, sempre troppo simmetrica alla “metà di voi qua vadano e gli altri (metà) vadan là”. Le quattro voci maschili vincono la partita per caratura e per esperienza, le tre femminili si difendono per studio e sobrietà. Marco Filippo Romano, Don Magnifico, è il baritono-buffo, non solo rossiniano, dei nostri giorni. Canta, recita e convince il pubblico. Richiederebbe forse qualche efficace aiuto registico nel coniugare l’eccessiva vis comica con l’altrettanto veemente cattiveria con cui sprezza la pretesa figliolanza di Angelina. L’intonazione non ha pecche e il sillabato è sciolto ed ammirevole. Antonino Siragusa, Don Ramiro di lunghissima carriera, conferma la padronanza di un ruolo in cui già brillava per alta maestria. La voce, che ha acquistato una robusta ampiezza nei centri, ha perso un poco di elasticità e di armonici in alto. Gli acuti, sempre sonori e brillanti, necessitano, per librarsi dal contesto della frase, di un evidente sforzo di preparazione. Nel personaggio, anche fisicamente, ci sta sempre ancora a pennello. Roberto de Candia è un esperto Dandini di sicura presa. Rimanendo del tutto convincente, non eccede mai nella vis comica. È un cameriere che si sforza, manifestatamente controvoglia, a fingersi principe, rimanendo impigliato in nodi da cui vorrebbe sciogliersi al più presto. Sfrutta la voce di baritono molto “chiaro” per inserirsi perfettamente nelle dispute tra l’acuto Ramiro e lo strabordante Magnifico. Sa tenere a bada le due sorelle e il fluviale padre, sfoderando proprietà di recitativi e chiarezza di cantabili. Negli “insieme” è garanzia di quadratura e barriera, forse involontaria, alle eccessive esuberanze altrui. Gabriele Sagona, è lui Alidoro. Bella, per timbro profondo, e ben calibrata la sua voce di basso che disegna appropriatamente l’ambiguo deus ex machina della vicenda. Si fa apprezzare, nell’atto primo, per la nobiltà della sua unica aria “La’ del ciel nell’arcano profondo”.Il comparto femminile: Carlotta Vichi e Giorgia Rotolo, sono rispettivamente Tisbe e Clorinda. Fin dalla partitura si fatica a individuarle perché cantano quasi sempre congiunte ed hanno caratteri sostanzialmente sovrapponibili. Le voci sono ben bilanciate e piacevoli. L’accomodante mezzosoprano Tisbe sa farsi comunque valere, quanto la più emergente Clorinda, il soprano. Un accoppiamento vocale assai bene assortito e di solida qualità. Finalmente Hongni Wu , Angelina “mignon”. Le qualità vocali, sia per natura che per studio, ci son tutte e son brillanti. Ma, come si diceva in avvio di queste note, Cenerentola non è un’operina ma un caposaldo della letteratura operistica e la protagonista riveste i panni di una patetica eroina. La storia dell’interpretazione conta diverse protagoniste che spavaldamente hanno esaltato le corde del mezzosoprano e del contralto. La bellissima cinese, con figura di “vezzosa bambolina”, stenta ad emergere sia per l’insufficiente caratura vocale che per l’assenza della necessaria protervia da “prima donna”. Rimangono la bellezza del timbro e l’accurata preparazione. Sola straniera tra italiani, non denuncia nessuna carenza di pronuncia e d’accento. Le sue frasi sono tutte ben dette ed efficacemente scandite. Per il Rondò finale, chiusa paradigmatica dell’opera, in cui la protagonista dovrebbe suggellare il proprio successo, si è optato per un collettivo “ballando con le stelle” in cui Angelina, novella Farah Diba, per abbigliamento e corona, scende e sale scaloni alla Wanda Osiris, evitando così di esporre eccessivamente la sua vocalità. Per la parte visiva: il Carlo Felice, col ricupero delle scene di Lele Luzzati del 1978, si spera abbia tracciato il giusto cammino di oculatezza economica che porta al riutilizzo delle giacenze di magazzino. Le scene, inquadrate in un foltissimo e verdissimo fogliame, con poche e sobrie strutture mobili, si mutano dalla cucina di Casa Magnifico al giardino di Casa Ramiro. Alcune proiezioni, anch’esse quanto mai sobrie, con grandi rosse peonie cadenti e pioggia scrosciante, figurano l’amore e il temporale incipiente. Le luci di Luciano Novelli hanno adeguatamente ispirato le atmosfere e messo in evidenza le scene e i costumi, riassestati nei valori originali dalla Direzione degli Allestimenti Scenici del teatro. Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi, coppia ormai fissa della regia, hanno, con lodevole chiarezza, illustrato l’intreccio; avrebbero forse dovuto smorzare alcune esuberanze comiche e metter più in evidenza il coté patetico della vicenda. Si deve comunque apprezzare la circostanza che non si siano fatti, come ormai è consueto in molte recite, danni e create confusioni che le sole “note di regia” invano tentano di chiarire. Pubblico foltissimo ed entusiasmo vivissimo. Applausi rumorosi, replicati per tutti. Alle stelle poi per chi della vicenda è stato interprete più estroverso ed appariscente. Fortunatamente, e con ragione, copiosi son stati gli apprezzamenti anche al Direttore Minasi e al fortista Restani.