“La Gioconda” al Teatro alla Scala di Milano

Teatro Alla Scala, Stagione Lirica 2021/2022
“LA GIOCONDA”
Melodramma in quattro atti su libretto di Tobia Gorrio (Arrigo Boito)
Musica di Amilcare Ponchielli
La Gioconda IRINA CHURILOVA
Laura Adorno DANIELA BARCELLONA
Alvise Badoèro ERWIN SCHROTT
La Cieca ANNA MARIA CHIURI
Enzo Grimaldo STEFANO LA COLLA
Barnaba ROBERTO FRONTALI
Zuàne FABRIZIO BEGGI
Un cantore / Un pilota ERNESTO JOSÉ MORILLO HOYT
Isèpo FRANCESCO PITTARI
Un barnabotto ALESSANDRO SENES
Orchestra e coro del Teatro alla Scala di Milano
Coro di Voci Bianche e Allievi della Scuola di Ballo dell’Accademia Teatro alla Scala
Direttore Frédéric Chaslin

Maestro del Coro Alberto Malazzi
Regia Davide Livermore
Scene Giò Forma
Costumi Mariana Fracasso

Luci Antonio Castro
Video D-Wok
Coreografia Frédéric Olivieri
Nuova produzione Teatro Alla Scala
Milano, 14 giugno 2022
La Gioconda di Amilcare Ponchielli, tra i più illustri esempi di Grand Opéra nella sua declinazione italica, si è fatta attendere ben 25 anni dall’ultima rappresentazione scaligera, che sia per l’oneroso dispiego di forze che questo genere operistico prevede (l’insita imponenza delle scene storiche popolate da un folto numero di coristi, comparse e un nutrito corpo di ballo) o più probabilmente per il non semplice reclutamento della sestina di solisti principali chiamati tutti a misurarsi con parti vocali impervie e corpose, all’interno di un repertorio tardo romantico / verista d’esecuzione non troppo comune. Il cast oggi proposto tuttavia non si fa trovare impreparato, con una prova nel complesso di buona qualità, con qualche punta d’eccellenza.
La prima è certamente da attribuire a un Erwin Schrott che ritroviamo in forma smagliante nel ruolo di un insinuante e cinico Alvise Badoèro. La vocalità possente ma educatissima unita al carisma scenico – qualità che da sempre contraddistinguono il basso-baritono uruguayano e che non accennano a sbiadirsi con il tempo – danno vita ad una prova magnetica culminante in un terzo atto che lo vede protagonista assoluto, particolarmente elegante nell’aria “Ombre di mia prosapia”. Altrettanto sontuosa è Daniela Barcellona nel ruolo di Laura Adorno, sua fedifraga consorte. Il mezzosoprano triestino ha voce di struttura ampia, vellutata e tornita dai corposi gravi fino all’alta quota in acuto, dalla presenza scenica sempre composta ma di gran carattere. Molto ben eseguita l’aria “Stella del marinar”, ma ancor più incisivi sono i suoi interventi nel suo passionale duetto con Gioconda “L’amo come il fulgor del creato”. È appunto questo uno dei momenti in cui appare evidente l’apporto piuttosto opaco della protagonista Irina Churilova, nel ruolo del titolo. Sentiamo probabilmente la mancanza di quel viscerale trasporto che muove la protagonista (“Siccome il leone […] ed il turbine”, come canta ella stessa), nemmeno sopperita da un timbro irresistibile e con una linea di canto spesso non troppo composta. Tuttavia nella grande aria “Suicidio!” il giovane soprano russo si riscatta per intenzione e rifinitura vocale, accolta da meritati applausi a scena aperta. Chiaro segnale che il potenziale non manchi, anche se avremmo preferito apprezzarlo lungo tutto il lungo corso dell’opera. Il suo amato Enzo Grimaldo è affidato a Stefano La Colla, sostituto in extremis del previsto Fabio Sartori. Il tenore torinese fa del suo possente mezzo vocale la sua forza, debordante per volume e squillo, proponendo tuttavia un’esecuzione piatta e monotona, senza troppe rifiniture a livello interpretativo. Tuttavia qualche inflessione in più possiamo apprezzarla nell’aria “Cielo e mar!”, in cui tenta mezzevoci piuttosto efficaci. All’opposto troviamo il Barnaba perfettamente impersonato da Roberto Frontali, che con esperienza cesella ogni verso con tale potenza scenica da richiamare facilmente tutta la viscida perfidia di uno Scarpia o di uno Jago, personalità totalmente affini a questo ruolo. Non è certo qualche sbavatura di intonazione ad inficiare una prova nel complesso maiuscola per fraseggio e musicalità.Ottima anche Anna Maria Chiuri nei panni della Cieca, madre di Gioconda, distintasi particolarmente per la vibrante profondità delle tonalità gravi e per l’efficace resa scenica in ogni gesto del suo muoversi barcollando nel vuoto. Bene anche i comprimari Fabrizio Beggi (Zuàne), Ernesto José Morillo Hoyt (un cantore / un pilota), Francesco Pittari (Isèpo), Alessandro Senes (un barnabotto). Inappuntabile l’apporto del Coro guidato da Alberto Malazzi e dalle Voci Bianche dirette da Bruno Casoni. Buono anche l’intervento degli Allievi della Scuola di Ballo dell’Accademia Teatro alla Scala diretti da Fréderic Olivieri.
Non altrettanto soddisfacente è la conduzione di Frédéric Chaslin, al suo debutto sul podio dell’Orchestra del Teatro Alla Scala. Il direttore francese offre una lettura avara di colori che tende a spingere senza soluzione di continuità su suoni sopra le righe e incessantemente sovrastanti, una resa purtroppo musicalmente semplicistica di quell’imponenza da Grand Opéra che pure riserva nella partitura una serie di delicatezze non pervenute.  Imponenza che si sposa tuttavia scenicamente con la grandiosità monumentale cui Davide Livermore ci ha abituati nelle sue ormai frequenti produzioni scaligere, non senza rivisitazioni in chiave contemporanea e citazioni dalle più disparate arti. Anche qui ritroviamo lo stesso apprezzabile taglio, anche se non tra le più indimenticabili proposte del regista. Scriveva l’artista e fumettista Moebius nel suo racconto fantascientifico intitolato Venezia Celeste: “Le strade hanno l’aria di corridoi che si snodano come serpenti da una stanza all’altra. […] I veneziani abitano nei muri…in uno pseudo-spazio libero dove vivono una pseudo-realtà. Il visitatore vaga all’interno di questo perimetro contenuto ma ripiegato all’infinito con una sensazione di totale disorientamento”. Assai simile a questa è la visione che Livermore restituisce di quella Serenissima secentesca, non senza attualizzazioni che ritroviamo nei costumi di Mariana Fracasso in un mix tra XVII secolo e Novecento, immersi nelle scene atemporali di Giò Forma che dipingono una Venezia spettrale, con giochi di tulle che ne danno una resa visiva appannata, come vista – ossimoricamente – dagli occhi della Cieca, con un’estetica che tra le nebbie lagunari rimanda per chi scrive al bianco e nero del fotografo contemporaneo Franco Donaggio nella sua nota serie Reflections. Visioni monocromatiche certamente suggestive (su tutte il rincorrersi di Badoèro e Laura durante il loro scontro tra corridoi in tessuti bianchi semitrasparenti, tra i momenti più riusciti), non altrettanto supportate da solide idee registiche, che si limitano a qualche apparizione mistica di angeli sospesi e citazioni tra il cinema di Kubrick e Fellini, con pulcinella tiepoleschi abbigliati alla stregua dei killer di Arancia Meccanica e le atmosfere oniriche del Casanova.
Sottotono anche le proiezioni video firmate come di consueto da D-Wok, con apporti prevedibili come le texture acquatiche o altre proposte grossolane e drammaturgicamente opinabili (su tutte l’incendio proiettato sul mastodontico galeone nel secondo atto). Al termine buon successo di pubblico, salvo qualche contestazione isolata all’indirizzo del direttore ed alcuni protagonisti. Si replica il  21 e 25 giugno. Foto Brescia e Amisano