Milano, Teatro alla Scala: “Adriana Lecouvreur”

Milano, Teatro alla Scala, stagione d’opera e balletto 2021/22
“ADRIANA LECOUVREUR”
Opera in quattro atti di Arturo Colautti dall’omonima commedia di Eugène Scribe e Ernest-Wielfried Legouvé
Musica di Francesco Cilea
Maurizio di Sassonia YUSIF EYVAZOV
Il principe di Bouillon ALESSANDRO SPINA
L’abate di Chazeuil CARLO BOSI
Michonnet ALESSANDRO CORBELLI
Quinault FRANCESCO PITTARI
Poisson COSTANTINO FINUCCI
Un maggiordomo PAOLO NERVI
Adriana Lecouvreur MARIA AGRESTA
La principessa di Bouillon JUDIT KUTASI
Madamigella Jouvenot CATERINA SALA
Madamgella Dangeville SVETLINA STOYANOVA
Orchestra, coro e corpo di ballo del Teatro alla Scala
Direttore Giampaolo Bisanti
Maestro del coro Alberto Malazzi
Regia David McVicar
Ripresa da Justin Way
Scene Charles Edwards
Costumi Brigitte Reiffenstuel
Coreografia Andrew George (ripresa da Adam Pudney)
Luci Adam Silverman (ripresa da Marco Filibeck)
Milano, Teatro alla Scala, 06 marzo 2022
Adriana Lecouvreur” torna alla Scala e più che le violette avvelenate deve temere una cappa di sfortuna che sembra aleggiare sulla produzione, una serie di sfortunati eventi ha costretto a ripetute modifiche della compagnia di canto, da ultima l’indisposizione di Anita Rachvelishvili dopo la prima e il subentro in corso di Judit Kutasi nei panni della principessa di Bouillon. Nonostante tutto però la produzione è arrivata in porto e con esiti nel complesso più che soddisfacenti.
Giampaolo Bisanti guida l’orchestra della Scala con solido mestiere. La sua è una direzione attenta che esalta la qualità della scrittura di Cilea che mostra una raffinatezza di gusto molto francese – non a caso grandi ammiratori di quest’opera furono Massenet e Fauré – elegante e perfettamente calibrata. Particolare risalto viene dato ai brani strumentali – la pantomima mitologica del III atto, il preludio al IV atto – dove Cilea esprime il suo gusto antichizzante e le sue doti di orchestratore. In Bisanti si apprezza un tono antiretorico e molto moderno che trova perfetto risconto anche nell’impostazione registica e nel gusto interpretativo degli interpreti. Il primo atto manca forse di un maggior abbandono ma è perfettamente calibrato tra componenti serie e brillanti. I successivi vedono una crescita progressiva che raggiunge il suo massimo nell’ultimo atto dove si apprezzano il velo di melanconia decadente del preludio e la luminosa trasparenza degli archi nel finale. Restano purtroppo i tagli di tradizione compresa l’aria del Principe fondamentale per la comprensione drammatica degli sviluppi successivi.
La compagnia di canto pur non esente da pecche offre nell’insieme una prestazione molto positiva. Maria Agresta è un protagonista incantevole. La cantante campana s’inserisce nel filone liricizzante del personaggio, la voce è innegabilmente bella e caratterizzata da una luminosità timbrica che si esalta nella lettura morbida e sfumata di molto brani. L’Agresta canta con un gusto quasi belcantista che si adatta alla perfezione alle melodie un po’ retrò di Cilea, al suo senso della melodia che seppur in forme più moderne guarda sempre alla scuola napoletana del primo Ottocento. L’aria di entrata e ancor più “Poveri fior” sono esemplari nel controllo del fiato, nell’emissione, nella naturale musicalità della linea di canto. Molto interessante è anche il taglio espressivo dato dall’Agresta al personaggio reso con una sensibilità moderna e delicata. La sua Adriana è un’attrice ma soprattutto una donna con tutta la sua semplice umanità, lontana dai modi un po’ troppo manierati con cui una certa tradizione tendeva a rendere la figura della primadonna. Se Adriana è sincera e antiretorica sul palcoscenico – e al riguardo le parole di Michonnet non lasciano dubbi – ancora di più deve esserlo nella vita reale. Questa è la cifra impressa dall’Agresta al ruolo, una ragazza semplice, spontanea, quasi a disagio nel gran mondo – “noi siam povera gente” come ricorda ancora Michonnet – intelligente e ironica così che l’imbarazzo ai complimenti dopo l’aria di sortita ci sembra sincero e non uno sfoggia di finta modestia e il “Ciel! Quante belle frasi” dopo gli eccessi di Maurizio si colora di una garbata ironia che lui preso dal suo slancio non coglie minimamente.
Nessuna lode è sufficiente per Alessandro Corbelli che per l’occasione ritorna a vestire i panni di Michonnet. Quasi cinquant’anni di carriera e la voce è ancora impressionante per presenza e sicurezza – solo in acuto si nota un certo affaticamento – ma a emergere è soprattutto lo straordinario talento d’artista. Nessuno come lui sa cantare i valori espressivi della parola, nessuno sa piegare ogni accento, ogni gesto alla piena costruzione espressiva del personaggio. Di fronte a tanta arte si può solo da restare ammirati.
Yusif Eyvazov non dispone certo di un materiale privilegiato. Il colore non è gradevolissimo, il registro acuto, se pur sicuro, manca sempre di autentico squillo. È però un cantante dalla solida preparazione e ha così in gran parte compensato questi limiti. Eyvazov sfoggia un buon  controllo dell’emissione e musicalità – persino il periglioso La bemolle di “Bella tu sei” era meno belante di quanto si ascolti di solito. Non è un cantante che trasmetta particolari emozioni ma ha il merito di affrontare questo repertorio con eleganza e controllo, senza strafare o forzare
Judit Kutaisi subentrata in estremo ha risolto il personaggio della Principessa con proprietà. In possesso di buone qualità vocali é apparsa ben centrata nel personaggio mostrando un temperamento giustamente appassionato. Restava l’impressione di una minor omogeneità con il resto del cast comprensibile con la situazione.
Corretto il Principe di Alessandro Spina; impeccabile l’Abate di Carlo Bosi, autentica sicurezza in questi ruoli. Autentico lusso due talenti emergenti come Caterina Sala e Svetlina Stoyanova nelle vesti delle commedianti affiancate con buone qualità da Francesco Pittari e Costantino Finucci.
Lo spettacolo di David McVicar arrivato in Scala dopo aver viaggiato tra i maggiori palcoscenici del mondo si conferma di altissima qualità pur mancando la mano del maestro – la ripresa di Justin Way è buona ma manca quel tocco di autorialità che solo il creatore può dare. La ricostruzione del palcoscenico ligneo della Comédie-Française ricostruito com’era nel XVIII secolo, il teatrino di corte dei Bouillon sono tableau di grande fascino. I costumi – splendidi – citano la miglior pittura francese del tempo, si vedano quelli dei commedianti direttamente tratti dai dipinti di Watteau. Lo spettacolo fonde alla perfezione tradizione – nel rispetto rigoroso del contesto storico – e modernità – nella gestione dei personaggi e nella cura delle dinamiche interpersonali. Molti sono i momenti da segnalare: la recita del primo atto vista dalle spalle del palcoscenico come un gioco di ombre cinesi; la strepitosa parodia dell’opéra-ballet durante la parodia del III atto, il bellissimo finale con Adriana che muore in teatro – in Cilea il teatro e la casa di Adriana sono i luoghi della verità opposti ai luoghi della finzione ipocrita del villino e della corte – con tutti i componenti della compagnia che omaggiano per l’ultima volta la donna e l’attrice, commovente omaggio al teatro e alla sua magia. Foto Brescia & Amisano