Opera di Firenze, 79° Maggio Musicale Fiorentino: “Iolanta”

Opera di Firenze, 79° Maggio Musicale Fiorentino
“IOLANTA”
Opera in un atto op. 69, su libretto di Modest Il’č Čaikovskij
Musica di Pëtr Il’č Čaikovskij
René, re di Provenza  ILYA BANNIK
Robert, duca di Borgogna  MIKOŁAJ ZALASIŃSKI
Vaudémont, conte di Borgogna  VSEVOLOD GRIVNOV
Ibn-Hakia, medico della Mauritania  ELCHIN AZIZOV
Alméric, scudiero del re René  MATEUSZ ZAJDEL
Bertrand, cortigiano del re René  FEDERICO SACCHI
Iolanta, figlia del re René  VICTORIA YASTREBOVA
Marta, moglie di Bertrand, balia di Iolanta  MZIA NIORADZE
Brigitta, amica di Iolanta  MARIA STASIAK
Laura, amica di Iolanta  IRINA ZHYTYNSKA
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Stanislav Kochanovsky
Maestro del coro  Lorenzo Fratini
Regia  Mariusz Treliński
Regista collaboratore  Jerzy Krysiak
Scene Boris Kudlička
Costumi  Marek Adamski
Luci  Marc Heinz (riprese da Tomasz Mierzwa)
Movimenti coreografici  Tomasz Wygoda
Video designer  Bartek Macias 
Drammaturgo  Piotr Gruszczyński
Co-produzione del Metropolitan Opera e Teatr Wielki / Polish National Opera
Firenze, 28 maggio 2016
Iolanta, ultima opera di Pëtr Il’č Čaikovskij, fu eseguita in prima assoluta il 6 (18 nel calendario gregoriano) dicembre 1892 al Teatro Marinskij di San Pietroburgo, come prima parte di un dittico che comprendeva anche il balletto  Ščelkunčik (Lo schiaccianoci). Ironia della sorte, quest’ultimo, accolto con una certa freddezza dal pubblico, divenne ben presto un successo mondiale di proporzioni epiche e durature; Iolanta invece, inizialmente acclamata, dopo alcuni anni di trionfi anche internazionali (Mahler, che l’adorava, ne diresse la prima viennese nel 1897), venne lentamente confinata ai margini del grande repertorio, soprattutto in Occidente.  Il libretto, tratto da La figlia di re Renato del danese Henrik Hertz (ispirato a sua volta da un racconto di Andersen) e scritto dal fedele fratello del compositore, Modest, non suscitò immediatamente l’interesse di Čaikovskij; fu solo quando il compositore vide nella protagonista un personaggio diverso, trattato diversamente da chi la circonda, e soprattutto allorché soffermò l’attenzione sul duetto fra Vaudément e Iolanta, e nel cocente desiderio della ragazza non vedente dalla nascita di affrontare qualunque sofferenza pur di conoscere l’amore che scattò quel meccanismo di identificazione del compositore nel personaggio, in connessione ad un’immediata risonanza di ordine emotivo nel suo inconscio.  L’archetipo del personaggio isolato e incompreso, l’”outsider” insomma (Tat’jana in Evgenij Onegin e Gherman – ma fino a un certo punto anche Liza -in Pikovaja dama) aveva già stimolato Čaikovskij nella creazione dei protagonisti dei suoi due capolavori operistici.  Anche Nastasija, la “strega” di “Čarodeika (La maliarda”), definita dal compositore “donna perduta”, e Giovanna d’Arco sono in fin dei conti dei personaggi “disadattati”. Scarsamente conosciuta e rappresentata al di fuori della Russia, negli ultimi anni, con l’intervento di Valery Gergeev e Anna Netrebko a caldeggiarne la causa, Iolanta sembra esser di nuovo entrata nella coscienza collettiva (per lo meno quella dei melomani); soltanto in queste ultime stagioni anni si sono avute produzioni prestigiose come quelle di Mariusz Treliński, che dopo esser stata allestita sia da sola che abbinato abbinato a A kékszakállú herceg vára (Il castello del duca Barbablù) di Bela Bartok al Metropolitan Opera di New York, approda adesso a Firenze, segnando la prima assoluta di quest’opera nel capoluogo toscano.  Bandito ogni riferimento al romanticizzato medioevo (che pure si riflette in diversi momenti della partitura) in cui è ambientato il libretto, Treliński, coadiuvato dalle scene di Boris Kudlička (molto suggestivo il tenebroso bosco da pura fiaba “horror”) , ha affermato di essersi ispirato alle atmosfere dei film noir degli anni ’40, ed infatti è il bianco e nero che predomina, in parte perché Iolanta si regge sul contrasto fra luce e tenebra, e in parte perché queste sfondi fumosi permettono all’eroina di rimanere al centro dell’attenzione. Lo scopo del regista pare quello di sbrogliare le metafore sottintese dell’opera. Il mondo della ragazza cieca è una camera da letto posizionata in una specie di scatola aperta girevole color bianco crema davanti e legno scuro sul dietro, con le pareti su cui sono appese numerose corna di cervo, con proiezioni occasionali, talora simboliche (un cerbiatto che sfreccia fra i boschi, e viene colpito a morte) e talora astratte. In modo assai significativo, quando Iolanta non riesce a distinguere una rosa rossa da una bianca, le proiezioni sono interamente in bianco e nero. Iolanta è infatti un’opera che ha a che fare con le percezioni; la cecità della ragazza è una metafora del non vedere il mondo di fuori come è veramente, tutta presa com’è dal proprio mondo interiore e dall’idealizzazione dell’amore. Non può guarire dalla sua cecità a meno che lei stessa, da sola,non desideri intensamente di vedere. Naturalmente nel caso di Iolanta non è necessariamente colpa della ragazza, dato che è stata isolata e protetta dal mondo esteriore dal padre, il re René, al punto che non è neanche consapevole di esser cieca. Come tutte le fiabe, anche questa ha i suoi lati oscuri, ma la risoluzione è di nuovo in bianco e nero, in quanto la luce dell’amore per Vaudémont le permette di accettare il mondo e le persone intorno a lei per quello che sono. Stanislav Kochanovsky ha dato una lettura che per fortuna è andata di pari passo con la concezione “oscura” della vicenda, a partire da un preludio minaccioso, inquietante, strisciante, in cui i fiati, unici protagonisti del brano, procedono su un andamento cromatico discendente con il corno inglese carico di presagi; ha fatto emergere tutta l’angoscia e il senso di colpa del re René nel drammatico Andante in do minore, nonché l’esotismo magico e misterioso che intride l’orchestra nell’immediatamente successivo monologo di Ebn-Hakia. Ha affrontato i momenti più decorativi con discrezione, ed ha fatto uso sapiente dei rubati (e di “molto rubato” è ricca la pagina) nell’arioso di Iolanta conferendole un fascino struggente e misterioso. Ottima la resa del gran duetto fra soprano e tenore, culmine melodico dell’opera, in cui l’enfasi sul ritmo di terzine mette in luce l’entusiasmo amoroso di Vaudémont. Ha cercato di minimizzare la retorica del momento più banale di Iolanta, il concertato con coro (anche se il punto in cui Robert cede Iolanta all’amico non le è da meno), che per fortuna non conclude l’opera, sfociando nella più originale pagina finale (dal “poco più mosso” in poi) in cui si ritrova il linguaggio armonico e melodioso immediatamente e inconfondibilmente riconducibile a Čaikovskij. Se l’orchestra si è fatta come sempre onore, il coro, che come ben sappiamo è uno dei maggiori in Italia, ha questa volta – nonostante il contributo assai limitato – mostrato degli sbandamenti d’intonazione nella sezione femminile. Il punto più debole dello spettacolo era la compagnia di canto, che variava, nei ruoli principali, dal più che decoroso al decisamente inaccettabile. Le due damigelle amiche di Iolanta, Maria Stasiak (Brigitta) e Irina Zhytynska (Laura) erano entrambe afflitte da timbro un po’ acidulo, che mal serviva i dolci archi melodici della splendida “Berceuse”, mentre Mzia Nioradze (Marta) vantava il bel timbro morbido autenticamente mediosopranile che conosciamo da tempo. Mateusz Zajdel (Alméric) si è fatto notare nei suoi brevi interventi per un certo squillo tenorile, e Federico Sacchi era decisamente sprecato nel ruolo di Bertrand, che gli ha comunque concesso di mettere in luce il lato un po’ brusco del personaggio nel dialogo con Alméric e un’autentica partecipazione emotiva nelle poche parole in cui racconta gli sviluppi della “cura” di Iolanta a tutti quelli che ne aspettano notizie con ansia. Dato il bel timbro di basso, non mi sarebbe dispiaciuto se fosse stata assegnata a lui la parte del re René. Elchin Azizov, reduce dalle prestigiose recite newyorchesi, è uscito a testa alta dal confronto con l’aria di Ibn-Hakia, con una belle esecuzione delle difficili terzine che contrassegnano quasi ogni frase e un perfetto accordo con il direttore nell’intensità del crescendo, e solo il fa diesis acuto non era perfettamente messo a fuoco. Timbro baritonale forse non completamente levigato ma sicuramente gagliardo, virile e quindi adatto al ruolo, e notevole estensione (bello il sol acuto) hanno caratterizzato il Robert di Mikołaj Zalasiński. Noti dolenti purtroppo per le due parti principali maschili: in particolar modo, la vocalità arida e nasaleggiante, faticosa, basata su di un’emissione di forza e di fibra, in cui ogni ascesa anche ai primissimi acuti diventa impresa titanica, di Vsevolod Grivnov ha ben poco a che fare con la personalità sognante, idealista, da autentico principe azzurro del Conte Vaudémont; alcuni acuti emessi in pianissimo erano i realtà falsettanti.  Dignitoso Ilya Bannik, anch’egli proveniente dalla messinscena del Met: nonostante tutto sommato abbia a disposizione tutte le note della notevole estensione (due ottave da fa 1 a fa 3, con ripetute salite al mi bem 3 nel bellissimo arioso) il ruolo del re abbisognerebbe di ben altro volume e spessore, di maggiore gravitas e autorità.  La protagonista, Victoria Yastrebova, non ha offerto particolari dovizie timbriche; ha impiegato un po’ di tempo a riscaldare la voce e quindi nelle prime scene, incluso l’arioso, è parsa quasi più petulante che commovente; dal duetto con il tenore in poi ha dispiegato un suono relativamente più morbido e caldo, con una prestazione in netta ascesa, tanto più che l’emissione è fondamentalmente corretta. Iolanta, in parte favola e in parte parabola religiosa, è un capolavoro che mi attrae e respinge al contempo: in ogni caso gli stucchevoli i riferimenti alla “luce di Dio” riflessa nell’universo naturale, con quel coro in la maggiore (che secondo Christian Schubart esprime appunto sentimenti che includono fede in Dio, dichiarazione di casto e giovane, amore, nonché femminilità pia e mite) che non sfigurerebbe nel lieto fine di un filmone hollywoodiano, sono per fortuna ampiamente compensati dal tono febbricitante di moltissime altre pagine, e dall’orchestrazione scura, quasi lugubre del bellissimo preludio che anticipano la Sesta Sinfonia con tutto lo psicodramma che quest’ultima racchiude. Foto Michele Borzoni