Riccardo Zandonai (1883-1944): “Conchita” (1911)

Opera in quattro atti su libretto di Maurizio Vaucaire e Carlo Zangarini, dal romanzo “La femme et le pantin” di Pierre Louÿs. Prima rappresentazione: Milano, Teatro Dal Verme, 14 ottobre 1911.
“Fattura fine, ispirazione originale, armonizzazione sapiente tutta personale, forma declamatoria del canto aderenti alla parola e innestata solidamente sullo strumentale che lo integra e la colorisce, è un velo di malinconia che avvolge il tutto “. Un vecchio giudizio, questo, sullo stile di Riccardo Zandonai, che – oltre l’aspetto encomiastico generico – reca, però, l’apprezzamento quando si allude  ad “un  velo di malinconia che avvolge il tutto”. Non occorre, per rendersi conto di ciò, arrivare alla considerazione di opere che, via via, in ordine alla vicenda scenica, già a priori, contengono un germe “patetico” atto a favorire la predisposizione “sentimentale” del musicista.
Certo, ogni autore guarda alle fonti che gli sono, in partenza, più congeniali. Ma la personalità, poi, tappa per tappa, a cose fatte, dimostrerà, anche, che la fonte ispirativa può assorbire, più o meno incisivamente, la carica espressiva personale. Come dire, insomma, che la personalità, giudicabile nella sua portata a fatto compiuto, già batte alle porte, in embrione, di fronte ad una scelta ad una preferenza. Questa considerazione, valida, ad esempio per lo per il teatro pucciniano, si mostra  ugualmente valida per il teatro di Riccardo Zandonai. E Conchita favorisce questo punto di vista. È un’opera “a lieto fine”. Un “lieto fine” – come dire? – duramente raggiunto dopo una serie di peripezie narrative che libretto non sa ragionevolmente predisporre.

Siamo nel 1911: epoca d’oro della “giovane scuola”. Zandonai, allievo di Mascagni, e al suo secondo saggio operistico. Lo appoggia Arrigo Boito. L”editore Ricordi lo invita a prendere in considerazione la storia di Conchita tratta dal romanzo di Pierre Louÿs, scrittore molto in voga a quel periodo, con la giusta dose di “attualità” scandalistica. L’argomento di Conchita, è dunque, “moderno”, cioè cronologicamente allineato all’età del musicista e a quella, media del pubblico. Non vi è trasfigurazione storica, né leggendaria, né esotica.
Si giustificano, allora, l’avvio “verista” prepotente e l’indugio sinfonico che, con il linguaggio critico del tempo, i recensori di Conchita misero in evidenza. Dopo un viaggio in Spagna per meglio cogliere, dal vivo, l’atmosfera espressiva della trama, Zandonai compie rapidamente la stesura dell’opera, a casa sua, a Rovereto. E, subito dopo ( 14 ottobre 1911, al teatro Dal Verme di Milano) la prima rappresentazione con protagonista il soprano Tarquinia Tarquini che sarà destinata a diventare, poche anni dopo, la moglie del compositore, compagni assidua di tutte le sue (assai raramente felice) vicende umane e artistiche. Conchita si sviluppa in quattro atti, dei quali il primo è il  più ampio (in tre quadri). È evidente che il dramma ha più di un elemento scenico (d’ordine narrativo ed ambientale) vicino all’atmosfera della Carmen di Bizet. Ma non si può dire, onestamente, che questo abbia influenzato il linguaggio musicale di Zandonai, più sensibile ad altre voci contemporanee, italiane e non. Da notare invece, nei quattro atti di Conchita uno spiccato è incisivo ritorno di leit-motiv. Zandonai stesso spiegò però che l’uso dei temi non aveva per lui una vera importanza psicologica, ma corrispondeva piuttosto ad un suo particolare sistema di ripetere e di riprodurre elementi ritmici durante l’intero lavoro per far sì che l’opera mostrasse una più chiara unità stilistica. Si può anche evidenziare il fatto di come l’opera si sviluppi attraverso quattro estesi  duetti nei quali la vocalità del musicista già mostra le caratteristiche personali, anche se non ancora sempre determinanti, di una vocazione specifica. Nel primo atto abbondano aspetti marginali, come nel veloce “Intermezzo nella strada” (che funge da secondo quadro), un pagina originale, anche nella concezione scenica, per i suoi tempi. Ancor più azzeccata (e, forse, perfetta), la bella introduzione del terzo atto (“Notte a Siviglia”), per la quale Zandonai misura, alleggerisce, contempla, con un senso di struggente e dolente malinconia, la felicità di un traguardo (l’insolito “lieto fine” dell’opera, di cui si faceva prima cenno) che già, comunque, non può non apparire, rivelarsi, se non opinabile, illusorio. Proprio perché, nel suo intimo, la natura umana del musicista scopriva (anche dinanzi ad una raffigurazione non triste, quale quella di Conchita), l’ineluttabilità  della malinconia, compagna della sua esistenza. In allegato il libretto dell’opera

 

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