Teatro alla Scala di Milano: “Die Ägyptische Helena”

Milano, Teatro alla Scala, stagione d’opera e balletto 2018/2019
“DIE ÄGYPTISCHE HELENA”
Opera in due atti su libretto di Hugo von Hofmannsthal
Musica di Richard Strauss
Helena RICARDA MERBETH
Menelas ANDREAS SCHAGER
Hermione CATERINA MARIA SALA
Aithra Eva MEI
Altair THOMAS HAMPSON
Da-Ud ATTILIO GLASER
Prima ancella di Aithra TAJDA JOVANOVIČ
Seconda ancella di Aithra/Quarto elfo VALERIA GIRARDELLO
Primo Elfo NOEMI MUCHETTI
Secondo Elfo ARIANNA GIUFFRIDA
Terzo Elfo ALESSANDRA VISENTIN
La conchiglia onnisciente CLAUDIA HUCKLE
Orchestra e coro del Teatro alla Scala
Direttore Franz Welser-Möst
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia Sven-Eric Bechtolf
Scene Julian Crouch
Costumi Mark Bouman
Luci Fabrice Kebour
Video Josh Higgason
Nuova produzione del Teatro alla Scala
Milano, 17 novembre 2019
Arriva alla Scala a oltre novant’anni dalla prima rappresentazione “Die ägyptishe Helena”, il meno noto e forse il meno compiuto dei lavori firmati dalla coppia Strauss – Hofmannsthal ma non per questo privo di fascino e seduzione. L’opera, che segna il ritorno alla collaborazione fra i due artisti dopo le incomprensioni che avevano portato alla nascita di “Die Frau ohne Schatten” (1919), era stata originariamente concepita come un’opera leggera, un’occasione per guardare al mito con ironia e distacco, quasi un ideale seguito de “La Belle Hélène” di Offenbach in cui raccontare la conclusione della storia scatenata dal ratto di Elena da parte di Paride. Hofmannsthal dall’alto della sua infinita cultura e conoscenza del mondo classico aveva trovato fertile materia in quell’”Elena” di Euripide dove l’austera etica politica della tragedia classica andava disgregandosi nel romanzesco e nel narrativo anticipando quel nuovo approccio verso i generi letterari che sarà proprio della successiva età ellenistica dove questi elementi d’intrattenimento penetreranno sempre più i generi codificati dalla tradizione arcaica e classica. Euripide resta il primo ma non l’unico dei modelli e le fonti da cui attinge il poeta sono le più svariate – da Omero a Goethe –  che si presentano come preziosi ingredienti fusi in una ricetta dove più che palesi sono le personalità dei cuochi, le loro vicende personali, le lacerazioni del loro presente.
Il risultato finale è quanto di più lontano dall’idea originaria e alla freschezza parodistica subentra una raffinata contrapposizione di generi con il mito classico che incontra il fairy tail purcelliano per raccontare le angosce del presente. Libretto prezioso ma poco teatrale, con lunghe scene statiche – gli infiniti duetti fra gli sposi – o eccessivamente dispersive (come gli episodi dei guerrieri del deserto) su cui Strauss dipana una musica di abbagliante bellezza ma forse quasi appagata del suo splendore, una musica in cui i sinfonismi wagneriani si rivestono dei colori cangianti di un broccato di Fortuny; si assiste al trionfo di una melodia ampia e avvolgente, sontuosa e carezzevole ma che sembra avvolgere il tutto anziché scavarlo in profondità pur rimanendo – quasi travolti dell’abbagliante edonismo della scrittura straussiana. Sven-Eric Bechtolf di ritorno alla Scala dopo il deludente “Ernani” della scorsa stagione mostra di trovarsi decisamente più a suo agio con questo titolo. La regia riesce infatti a muoversi con eleganza nelle ambiguità di quest’opera, nel fondere presente e passato, reale e sogno in modo fluido e mai stridente. Le scene di Julian Crouch sono dominate dalla presenza di una grande radio d’epoca, versione reale e borghese della magica Conchiglia onnisciente che rivela alla maga tutto quanto accade nel mondo; radio che nel primo atto si apre definendo i vari ambienti del palazzo incantato con un tutta la raffinatezza dei suoi ricchi decori art-déco mentre nel secondo mostra la propria struttura interna con le ampolle che la compongono quasi trasformate in incantate visioni d’un Oriente onirico o lunare fatto di palazzi e minareti di vetro sormontati da cupole argentee. I costumi – splendidi – di Mark Bouman partono da tratti realistici della moda anni-venti per evolversi progressivamente verso soluzioni fiabesche e fantastiche che ricordano Erté e non sono prive di suggestioni cinematografiche. In tanta lussuosa fantasia ancor più contrasta l’immagine dimessa e dolorosa del reduce Menelao con la sua divisa da prima guerra mondiale, schiacciato dall’orrore della tragedia vissuta, incarnazione delle tante, troppe, anime devastate dalla guerra – e fin troppo palesi sono nello stesso libretto i sintomi tipici dello shock post-traumatico bellico nell’evocazione dei tormenti del re spartano.
Specialista del repertorio straussiano e ormai presenza frequente alla guida dell’orchestra scaligera, Franz Welser-Möst convince solo in parte. Sicuramente è nelle sue corde il preziosismo della partitura con le sue tinte sgargianti e sonorità squillanti. Grande professionista regge con mano sicura la complessa scrittura musicale ma sul versante espressivo punta troppo a privilegiare i suoni pieni e corposi   – salvo i momenti,  quasi cameristici, riguardanti le creature ultratterene – dove si sarebbe gradita una lettura più varia e sfumata.  Welser-Möst tende  a esaltare i momenti più enfatici, sacrificando quelli più intimi. È difficile notare la differenza – così tenue ma così essenziale – tra i temi della vera Elena e quelli del suo doppio e latita il languore erotico che dovrebbe circondare la protagonista. Una direzione di grande magistero tecnico ma in cui manca il colpo d’ala dell’autentica ispirazione. Discorso analogo può in parte valere per la coppia protagonista tenendo però conto dell’estrema difficoltà delle parti. Ricarda Merbeth affronta Elena con slancio e convinzione. La voce è robusta, sonora, squillante, regge con  sicurezza una tessitura scomoda e impegnativa. E’ evidente che si trovi più a suo agio nei momenti più drammatici dove emerge la natura eroica della sua vocalità – molto riusciti al riguardo i duetti con Menelao – mentre appare più in difficoltà quando il canto richiede maggior morbidezza. Difficile immaginare oggi un “Zweite braunacht” così vocalmente sicuro ma al contempo così poco seducente.
L’antipatia di Strauss per i tenori è fatto passato alla vulgata popolare ma con Menelas si raggiunge l’autentico sadismo. Forse è impossibile immaginare parte vocalmente più pesante e spigolosa di questa. Andreas Schager ha il merito di reggere il ruolo con invidiabile sicurezza. Voce non bellissima ma solida e robusta, temperamento da autentico heldentenorer non si lascia intimidire dalle difficoltà. Certo si potrebbe volere qualche cosa in più sul terreno del fraseggio, dell’accento, ma forse questo canto un po’ stentoreo, nel suo esibito eroismo riesce a rendere gli atteggiamenti nevrotici che dominano il personaggio. La lunga carriera ha lasciato qualche segno sulla voce di Eva Mei (Aithra)che ha perso parte di quell’argentea luminosità che la contraddistingueva negli anni migliori. La musicista però è sempre raffinatissima e dotata di rara intelligenza, anche a scapito di un peso vocale che, nonostante l’ottima tecnica, talvolta  fatica a superare l’oceano sonoro dell’orchestra. Scenicamente è irresistibile nell’impersonare questa figura un po’ strega e un po’ diva del muto.
Appare purtroppo decisamente stanca la voce di Thomas Hampson (Altair), sbiancata e faticosa. Attilio Glaser è un Da-Ud di buon afflato lirico; Claudia Huckle una conchiglia di voce non grande ma pulita e musicale; buone le parti di fianco affidate per lo più ai giovani dell’Accademia scaligera.