Teatro di San Carlo di Napoli: “Ermione”

Napoli, Teatro di San Carlo, Stagione d’opera e danza 2018/19
ERMIONE”
Azione tragica in due atti su libretto di Andrea Leone Tottola tratto dalla tragedia Andromaque di Jean Racine.
Musica di Gioachino Rossini
Ermione ARIANNA VENDITTELLI
Andromaca TERESA IERVOLINO
Pirro JOHN IRVIN
Oreste ANTONINO SIRAGUSA
Pilade JULIAN HENAO
Fenicio UGO GUAGLIARDO
Cleone GAIA PETRONE
Cefisa CHIARA TIROTTA
Attalo CRISTIANO OLIVIERI
Astianatte ALESSANDRO DOCIMO
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Direttore Alessandro De Marchi
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Regia Jacopo Spirei
Scene Nikolaus Webern
Costumi Giusi Giustino
Luci Giuseppe Di Iorio
Napoli, 10 novembre 2019
Anche questa volta, il pubblico napoletano, celebre ai tempi di Rossini per la sua severità, in alcuni punti dell’Ermione, se ne è restato in silenzio. Proprio come accadde duecento anni fa quando, al Real Teatro di San Carlo, il 27 marzo 1819, vi fu la prima di questo sfortunato ed incompreso capolavoro, che dovette attendere centocinquantotto anni prima d’essere riproposto a Siena, ma in forma di concerto, dopo l’infelice battesimo partenopeo. Esso presenta caratteri di atipicità fin dalla sinfonia, bruscamente interrotta da inattesi interventi corali: l’eco lontana delle tribolazioni dei prigionieri troiani, quasi come se la sinfonia fosse già azione scenica e non un mero lavoro introduttivo. Un’opera contrassegnata da momenti d’impegnativa tensione, meditazioni introspettive, eleganti invenzioni melodiche ed una faticosa scrittura vocale. Nella sua Napoli, che per breve tempo, ha potuto ricordare a se stessa d’essere stata una delle grandi capitali culturali d’Europa, torna questa concitatissima tragedia, con regia curata da Jacopo Spirei, scene progettate da Nikolaus Webern e luci di Giuseppe di Iorio. L’operazione della fatale razionalizzazione della tragedia, attuata con una imponente sofisticheria dal regista, converte l’esperienza greca in una situazione storicizzante, da manuale universitario, fissando in immagini le relazioni tra padroni e ribelli, marginalizzando, le vicende amorose. Se da un lato, tale storicizzazione del mito poco ha intaccato dell’impegnativo sentimentalismo rossiniano, dall’altro lato, la borghesizzazione della mitologia greca ne ha sfigurato l’azione. Non si tratta, tuttavia, d’una banale falsificazione otto/novecentesca dell’opera, poiché essa approda alla coscienza borghese: Pirro, re dell’Epiro, viene trasfigurato nel  funzionario che sta attento che tutto sia rigidamente schedato ed incasellato nelle opportune categorie, com’egli stesso nella propria, piantandosi sopra d’un trono che, seppur vacillante, resta pur sempre un trono. Re e piccoli funzionari, barbaramente abbarbicati ad un formalismo burocratico, che li eguaglia, non solo nel vestiario da ufficio, ma anche nel linguaggio amministrativo: Pirro, d’altronde, ha ragionato d’amore, come l’impiegato sbrigherebbe le pratiche. La parola, dunque, pensa al posto del pensatore, del re, del funzionario; avviene, pertanto, una  neutralizzazione della parola scenica,  poiché profferita da figure spersonalizzate; tutti intrappolati – principi e prigionieri – in una scatola bianca, con elementi decorativi neo-classicheggianti, toccata da luci delicate ma, all’occorrenza, tenebrose. Sul podio napoletano, Alessandro De Marchi. Lascia perplessi l’assenza di pathos, di espressività, di incisività, che affossa la tensione drammatica e la sua tragicità.  Forse si  restituire un Rossini più che mai da opera seria settecentesca,  staccarlo nettamente da quello buffo, anche se i due sono irrimediabilmente legati dalla condivisione del medesimo materiale tematico ed armonico. Se De Marchi avesse trattato i crescendo dell’Ermione con la stessa verve e brillantezza con cui s’eseguiscono nel Barbiere, ad esempio, sarebbe stata decisamente fuorviante come interpretazione. Però, la poca espressività non si confà ad un’opera serratissima e concitata come questa, e rischia di dare ragione a coloro che giudicano Rossini come incapace di coinvolgere emotivamente gli spettatori. Come sempre, sradicare da un compositore o da un’opera i loro “difetti”, significa demolirne anche i pregi. Ottimo esito per la compagnia di canto, avvolta in abiti dai colori vivaci e dallo stile tardo-ottocentesco, ideati da Giusi Giustino. Il soprano Arianna Vendittelli, con una buona tenuta nel grave, omogeneità di voce e pienezza di volume, scava il ruolo d’Ermione con una sentita padronanza del fraseggio e una veemente passionalità interpretativa,  traendo vantaggi dalle agili colorature, appropriatamente affrontante come significante mezzo d’espressione dei sentimenti. Parimenti convincente ed emozionante, anche l’interpretazione del contralto Teresa Iervolino. Donando alla sua Andromaca un ampio fraseggio ed una voce  vellutata, compatta, voluminosa ed estesa nel grave, passa senza difficoltà dalla cavatina “Mia delizia! Un solo istante” (Atto I), affrontata con struggente abbandono lirico, all’affannosa cabaletta “Mi lasciate… oh Dio! Tacete…”, con vocalizzazione spigliata. Grande successo per  Antonino Siragusa. La voce ricca d’accenti toccanti, di bel cantabile,  ben adusa al canto virtuosistico, gli consente di conferire al suo Oreste un temperamento teatrale degno del ruolo, appropriatamente affrontato. Delude, invece John Irvin, che mostra non poche difficoltà nell’affrontare Pirro. Il timbro particolarmente chiaro ed un canto complessivamente corretto non gli hanno, tuttavia, accordato d’attenuare le sue difficoltà: i centri fragili, limitati lo hanno purtroppo reso spesso inudibile. Oggetto di contestazioni il cantante si è mostrato stizzito,  rispondendo  con gestacci decisamente poco professionali. Complessivamente buone le prove vocali e teatrali di Julian Henao (Pilade), Ugo Guagliardo (Fenicio), Gaia Petrone (Cleone), Chiara Tirotta (Cefisa), Cristiano Olivieri (Attalo), Alessandro Docimo (Astianatte). Corretto l’indispensabile apporto del coro, preparato da Gea Garatti Ansini.In conclusione, un pubblico un po’ intimidito, ma particolarmente attento, ha accolto l’audace capolavoro rossiniano, anche con qualche risatina quando Ermione appella Andromaca come “un avanzo di Troia”…. Foto Francesco Squeglia