Teatro del Maggio Musicale Fiorentino: Dittico “Un mari à la porte”, “Cavalleria rusticana”

Teatro del Maggio Musicale FiorentinoStagione 2018-2019
 “UN MARI À LA PORTE”
Operetta in un atto
Musica di Jacques Offenbach
Libretto di Alfred Delacour e Léon Morand
Florestan Ducroquet MATTEO MEZZARO
Suzanne MARINA OGII
Rosita FRANCESCA BENITEZ
Martel PATRIZIO LA PLACA
“CAVALLERIA RUSTICANA”
Opera in un unico atto
Musica di Pietro Mascagni
Libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci
Santuzza ALEXIA VOULGARIDOU
Lola MARINA OGII
Turiddu ANGELO VILLARI
Compar Alfio DEVID CECCONI
Mamma Lucia ELENA ZILIO
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Valerio Galli
Coro del maggio Musicale Fiorentino
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Luigi Di Gangi/Ugo Giacomazzi
Scene Federica Parolini
Costumi Agnese Rabatti
Luci Luigi Biondi
Firenze, 12 febbraio 2019
Con grande apprezzamento del pubblico, va in scena un bizzarro dittico che vede la “Cavalleria Rusticana” di Mascagni, disgiunta dai consueti “Pagliacci”, in coppia con una delle infinite operette di Offenbach, un lavoro del 1859 dal titolo “Un mari à la porte”. In questo modo il Teatro del Maggio commemora il bicentenario della nascita del prolifico compositore che inventò questo genere destinato ad una popolarità esplosiva, ancorché breve. In Italia Offenbach è noto al pubblico principalmente per l’opera “I racconti di Hoffmann”, mentre le sue operette, tolte le più celebri – “Orphée aux Enfers”, “La Belle Hèléne”e “La Périchole” – sono sostanzialmente sconosciute. Si tratta infatti di una prima esecuzione per il teatro fiorentino di un lavoro lieve e spumeggiante che equilibra la tragicità dell’opera di Mascagni nel mettere in scena lo stesso tema, la gelosia coniugale, con un’ottica e un piglio opposti: da una parte lustrini, gridolini e risate per un supposto tradimento che in realtà è tutto un equivoco, dall’altra eros e sangue in un testo capitale dell’Opera verista.
“Un mari à la porte” è un intrattenimento leggero, fatuo, ma elegante, perfetto per i gusti della borghesia del suo tempo, ma ancora godibile e divertente se ben allestito ed eseguito.
La scenografa Federica Parolini coglie il carattere della leggerezza e lo materializza in un’infinità di piume; tutto è svolazzante e vaporoso in una camera di stile eclettico tutt’altro che filologico. Mediante l’accumulo di ciarpame multicolore, materiali poveri ma scintillanti di pagliuzze d’oro e glitter, stoffe floreali e maculate, si ricrea una preziosità allegramente kitsch. In perfetta armonia con la scena, strambi e coloratissimi, sono i costumi di Agnese Rabatti. Leggerezza suggerisce anche la regia di Luigi Di Gangi e Ugo Giacomazzi: testoline graziosamente vuote e movenze danzanti per tutti. I quattro interpreti si infilano con grande bravura ed evidente divertimento nei panni dei loro personaggi e li conducono attraverso una girandola di gag surreali fino al paradosso, senza mai volgarità.
Nel fare questo cantano e lo fanno bene, con arguzia ed espressività e con una particolare cura della pronuncia francese. Il ruolo vocalmente più rilevante è quello di Rosita, retto con voce tonda e brunita nel registro medio, ma opportunamente slanciata negli acuti di Francesca Benitez, lungamente applaudita. Marina Ogii e Matteo Mezzaro, nei loro ruoli di impegno oggettivamente modesto, sono efficaci e gradevoli, come Patrizio La Placa nella piccola parte del marito alla porta. Il direttore Valerio Galli aderisce con freschezza al clima tardo ottocentesco di ritmi ternari senza esibire rubati ricercati, ma con un fraseggio elegante e timbri felpati.
Di tutt’altro segno e impegno è l’approccio del direttore viareggino a “Cavalleria rusticana” della quale offre una lettura piena di passione, ma anche di sfumature, formalmente nitida, ma dotata di grande libertà ed elasticità di passo. L’esecuzione in tanti momenti richiama alla mente la celebre incisione diretta dall’autore nel 1940 e si ha l’impressione che Galli abbia colto e metabolizzato i tempi di Mascagni, il modo di far respirare il fraseggio allargando e indugiando dove certe figurazioni ritmiche risulterebbero ‘legnose’ se eseguite a tempo. La testimonianza diretta vale se non altro a rendere evidente che l’autore ha concepito certe frasi e così le ha scritte, immaginandole eseguite con tale flessibilità; il giovane Maestro dimostra di averne preso coscienza – forse ha ascoltato con attenzione i dischi, forse è il suo istinto di musicista che gli suggerisce certe scelte – e di essere in grado di realizzare una “Cavalleria” di grande interesse, con un Intermezzo di rara dolcezza, dalle sonorità alate, intenso e commosso. Prezioso è l’apporto di Orchestra e Coro del Maggio, come di consueto in ottima forma.
Notevole è la Santuzza di Alexia Voulgaridou, portata in scena con eleganza e misura, senza togliere nulla alla potenza emotiva; la cantante greca dimostra come l’intelligenza artistica e la sapienza dell’emissione possano costruire un personaggio ben più dello sfarzo timbrico. Soprano di peso medio, ma di ottima proiezione, è a suo agio lungo la tessitura medio-acuta; i suoni gravi sono costruiti con perizia tecnica. Lo strumento pieghevole e lucente la serve alla perfezione nel creare in maniera originale un personaggio tanto frequentato, una Santuzza introversa, mai risaputa nel fraseggio tendenzialmente asciutto, ma ricco di dettagli personali. Pienamente nel solco della tradizione invece è il Turiddu di Angelo Villari, del quale tuttavia si apprezzano la baldanza vocale, la saldezza dei mezzi, la capacità di affrontare con nonchalance le frasi più arroventate e di smorzare all’occorrenza; il timbro, leggermente granuloso nel medium, acquista lucentezza nella salita. Parte senza clamore con una Siciliana non memorabile, ma prende via, via quota, per terminare con un Addio alla madre tutto da applaudire per la sincerità espressiva e il canto squillante. Di pasta un po’ meno fine è l’Alfio di Devid Cecconi; la recitazione è buona, il canto è solido, le frasi più gravi sono ottime, il centro roccioso, gli acuti, non tutti perfetti, corrono comunque in sala con buono squillo; il suo momento migliore è il duetto della vendetta con Santuzza. Non molto incisivo è il breve passaggio di Marina Ogii nei panni di Comare Lola. Lo strumento vocale di Elena Zilio mostra qualche inevitabile crepa nella saldatura dei registri, ma la voce c’è ancora e la maestria tecnica anche, poi l’artista ha una tale classe che la sua Mamma Lucia si imprime nella memoria.
Regia, costumi, scene e luci portano le stesse firme dell’operetta di Offenbach e compongono una messa in scena classica, senza particolari guizzi, ma drammaturgicamente funzionale e dotata di bell’equilibrio estetico, con il fondale bidimensionale di povere case dominate dalla chiesa, il cui interno è interamente realizzato da proiezioni che suggeriscono il crocifisso e le candele dell’altare in modo molto originale, grazie alle luci di Luigi Biondi.
Al termine, interpreti, direttore, coro e staff scenico ricevono applausi lunghi e calorosi, riscuotendo un generale, franco successo. Foto Michele Monasta.