Teatro dell’Opera di Roma: “The Bassarids”

Teatro dell’Opera – Stagione Lirica 2015/2016
“THE BASSARIDS”
Opera seria in un atto su libretto di Wystan Hugh Auden e Chester Kallman da Le Baccanti di Euripide.
Musica di Hans Werner Henze
Dionysus LADISLAV ELGR
Pentheus RUSSELL BRAUN
Cadmus MARK S. DOSS
Tiresias ERIN CAVES
Captain of the Royal Guard ANDREW SCHROEDER
Agave VERONICA SIMEONI
Autonoe SARA HERSHKOWITZ
Beroe SARA FULGONI
Orchestra e Coro del Teatro dell’ Opera di Roma
Direttore Stefan Soltesz
Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Regia Mario Martone
Scene Sergio Tramonti
Costumi Ursula Patzak
Luci Pasquale Mari
Movimenti coreografici Raffaella Giordano
Nuovo allestimento del Teatro dell’Opera
Prima rappresentazione a Roma
Roma, 1 dicembre 2015

Spettacolo inaugurale della stagione del Teatro dell’Opera di Roma questi Bassaridi, The Bassarids, di Henze, un’opera del secondo novecento tratta da Le Baccanti di Euripide. La tragedia, che contrappone con infiniti rimandi speculari il mondo istintivo delle libere pulsioni di Dioniso a quello razionale e lontano dalle passioni della carne di suo cugino il re Penteo, già nell’originale euripideo lascia insolute moltissime questioni, mancando insolitamente della catarsi finale a risoluzione emotiva e narrativa del dramma e del consueto, rassicurante e salvifico intervento del deus ex machina. Molti possono pertanto essere i percorsi di lettura e molte sono state anche le ipotesi formulate dalla critica circa il razionalismo di Euripide o una sua ritrovata religiosità espressi in questa tragedia. In realtà probabilmente il grande tragico non parteggia per nessuna delle due posizioni ma narra e sviluppa come osservandole dall’alto le drammatiche vicende dei personaggi, ciascuno chiamato secondo la propria natura ad agire il proprio destino. Apparentemente Auden e Kallman nella loro rivisitazione del dramma sembrerebbero parteggiare più per la componente razionalista incarnata da Penteo visto l’ampio spazio che viene dato alla rappresentazione della bestiale crudeltà ed all’efferatezza delle azioni ispirate da Dioniso. Allo sfortunato re certamente va la pietà riservata ai perdenti ed al destino atroce che gli è riservato. Tuttavia il gioco, come anche in Euripide, non è cosi nettamente univoco e molte sono le ambivalenze e i rimandi speculari tra i vari personaggi. Anche Penteo per esempio nella sua ossessione sessuofoba e razionalista è a suo modo violento, ordina la tortura di coloro che considera pericolosi nemici o oppositori anche se questa non viene mostrata esplicitamente sulla scena, manifesta un atteggiamento morbosamente ambivalente quasi incestuoso verso sua madre quando vuole indurla a narrare ciò che accade sul monte Citerone dove si svolgono i rituali dionisiaci dai quali è intimamente attratto più di quanto le parole non lascino intendere. Infine assisterà a questi vestito da donna su istigazione di Dioniso stesso sotto mentite spoglie, ufficialmente per serbare l’incognito, forse come ulteriore umiliazione che il dio nella sua implacabile sete di vendetta intende infliggergli ma anche come evidente unica possibile espressione di una sessualità altrimenti negata e maniacalmente repressa. Probabilmente è attratto da un piacere del quale riesce ad essere solo spettatore e non parte attiva ed al quale riesce ad accostarsi solo assumendo una diversa identità. Lui riconosciuto quale maschio verrà poi smembrato, divorato e decapitato da sua madre e da un gruppo di femmine, le menadi, nel rituale dello sparagmòs, il sacro sbranamento. Molto efficace la regia di Mario Martone nell’evocare la violentissima drammaticità del racconto in uno spazio chiuso, forse mentale, in cui prevalgono i toni del grigio e del rosso pompeiano, apparentemente lineare e spoglio nel quale, da sotto un tappeto rosso, emergono i rappresentanti del mondo di Dioniso. La natura dionisiaca raccontata non è certo verde e soleggiata ma ha le tinte e, possiamo intuire, anche gli odori del sangue, del sudore, della carne, degli umori dell’accoppiamento e delle ossa smembrate.
Un fondale specchiante che viene diversamente inclinato durante lo spettacolo riflette colori, deforma immagini e crea profondità tali da suggerire, senza citarle in maniera esplicita o univoca, il richiamo ad una vulva, al cratere di un vulcano, alla profondità infinita del cosmo o ai fosfeni che accompagnano i sogni e le allucinazioni e nel quale di tanto in tanto anche il direttore d’orchestra si riflette, poichè probabilmente la musica impersona il ruolo di muto burattinaio della vicenda, aprendo quindi la strada ad ulteriori piani espressivi introducendo lo spettatore nella sfera del non verbale. Fondamentale a questo riguardo la presenza dei soprattitoli vista la scelta di rappresentare l’opera in inglese a differenza di quanto avvenne nella esecuzione della Scala degli anni 60 in cui si optò per l’italiano. Troviamo sempre emozionalmente distraente dover distogliere lo sguardo dal palcoscenico per seguire un testo ma in questo caso crediamo sia preminente la necessità di una esatta comprensione della parola. Va precisato inoltre che abbiamo assistito allo spettacolo dalla platea da dove probabilmente è pensato che debba essere visto, poiché il gioco di specchi e dei riflessi non crediamo sia apprezzabile anche dagli ordini di palchi superiori e in ogni caso è intuibile che apparirebbe diverso. Unico aspetto francamente poco entusiasmante la presenza dei militari fascisti sulla scena, ormai tanto abusata e vista da risultare impoverita nella sua valenza evocatrice di un male che fra l’altro sarebbe bene non dimenticare che purtroppo non è stato l’unico del secolo scorso. La musica di Henze di non sempre immediata comprensione per il suo eclettismo e frammentarietà, priva di temi facilmente memorizzabili riesce a comunicare emozioni e a rievocare sensazioni anche intense e profonde più per virtù di sintesi intuitiva che non attraverso un’operazione di analisi e decodificazione di una partitura che si dimostra complessa e di non facile approccio anche per gli addetti ai lavori. Sicuramente è parsa buona l’idea di rappresentare il dramma, che dura nel complesso due ore, in un atto unico e non suddiviso in parti come avvenne alla Scala, per l’unitarietà dell’azione e soprattutto della tensione emotiva che si è desiderato creare nel pubblico e che ha raggiunto il suo vertice solo nella seconda metà dello spettacolo, apparendo la prima forse un po’ troppo statica. Molto buone le prove dell’orchestra e del coro ampiamente impegnato e guidati rispettivamente da Stefan Soltesz e da Roberto Gabbiani. Bravi, ben amalgamati ed efficaci i solisti, impegnati in ruoli non facili sia sotto il profilo musicale che scenico. Fra tutti da segnalare l’Agave di Veronica Simeoni per la bella rotondità del suono e la disinvoltura della recitazione e il Penteo del baritono Russell Braun per la dolente e sofferta intensità conferita al suo personaggio. Molto appropriato scenicamente ma con qualche fatica vocale di troppo il Dioniso di Ladislav Elgr e bravo ma un po’ monocorde il Cadmus di Mark S. Doss. Funzionali e in ogni caso su un livello di buona professionalità tutti gli altri. Curatissimo e molto ampiamente documentato il programma di sala a testimonianza però del fatto che di questo interessante testo si cerchi forse più di parlare in un ambito elitario ed autoreferenziale di addetti ai lavori di quanto non lo si faccia vivere sul palcoscenico, lasciando al tempo ed alla sensibilità di ciascuno degli spettatori la facoltà di dare voce al disperato urlo muto di Penteo che conclude la tragedia.