Teatro Massimo di Palermo:”Norma”

Palermo, Teatro Massimo, Stagione Lirica 2014 
“NORMA”
Tragedia lirica in due atti. Libretto di Felice Romani
Musica di Vincenzo Bellini
Oroveso, capo dei druidi MARCO SPOTTI
Norma, druidessa, sua figlia CSILLA BOROSS
Pollione, proconsole romano nelle Gallie AQUILES MACHADO
Adalgisa, druidessa ANNALISA STROPPA
Clotilde, ancella di Norma
PATRIZIA GENTILE
Flavio, romano amico di Pollione
FRANCESCO PARRINO  
Orchestra e Coro del Teatro Massimo di Palermo
Direttore Will Humburg
Maestro del Coro Piero Monti
Regia Jossi Wieler
Scene e costumi Anna Viebrock
Luci Mario Fleck
Allestimento dell’Opera di Stoccarda
Palermo, 17 giugno 2014     

Il presentimento che questa Norma non avrebbe lasciato indifferente il pubblico palermitano si era già avvertito durante la presentazione della stagione lirica del Teatro Massimo, in cui veniva annunciato che l’allestimento sarebbe stato quello assai originale dell’Opera di Stoccarda del 2002, firmato dai registi Jossi Wieler e Sergio Morabito e scelto dalla rivista tedesca Opernwelt come “spettacolo dell’anno”. E la conferma è giunta la sera della Prima: dopo il Terzetto che conclude il Primo Atto, tra gli applausi più o meno convinti del pubblico, alcuni spettatori – che non avevano risparmiato commenti negativi sottovoce già durante lo spettacolo – sono esplosi in cori di “buuu!” e “vergogna!”, palesando in modo poco ortodosso un certo imbarazzo che, almeno per noi, questa scelta interpretativa aveva effettivamente suscitato. La novità di questa rilettura sta nell’aver proiettato la tragedia di Bellini e Romani in un tempo a noi più vicino, quello della Resistenza francese contro l’oppressione tedesca durante il secondo conflitto mondiale, e di aver messo in risalto il contrasto tra guerra e pace paragonandolo alla prevaricazione dell’uomo sulla donna.
Le scene di Anna Viebrock sono essenziali, minimaliste, scarne, così come le luci di Mario Fleck: l’azione non si svolge più, come recita il libretto, “nelle Gallie, nella Foresta sacra e nel Tempio d’Irminsul”, ma ha luogo interamente in una chiesa sconsacrata dalle pareti scrostate tra i cui banchi prende posto non il popolo dei galli con i druidi e le sacerdotesse, ma i partigiani e le loro donne, e nella cui sagrestia vive Norma insieme ai suoi due figli. L’elemento scandalistico che ha infiammato la platea tuttavia, non dev’essere stata tanto la scelta ‘modernista’ in sé: non sono rari infatti i casi di trasposizioni contemporanee che anzi hanno messo in luce aspetti poco indagati di un’opera, rendendola più vicina al nostro sentire, senza per questo intaccarne quella struttura intima che ne giustifica l’immortalità artistica. Ciò che di questa Norma risulta a nostro parere poco felice è il modo in cui quella scelta si è voluta sviluppare; quello che stupiva era, infatti, una sorta di accanimento sul particolare visivo che distoglieva l’attenzione dal senso totale dell’opera (che è sì azione, ma sempre correlata alla musica), conferendo a tratti un carattere quasi caricaturale ai personaggi ed alle situazioni.  Adalgisa, ad esempio, è dipinta come una biondina ingenua, quando invece il suo personaggio è tutt’altro che frivolo, perché incarna il tormento psicologico di una donna coraggiosa e forte, capace di affrontare Norma e infrangere i voti in nome dell’amore e, subito dopo, di allontanare l’amato Pollione in nome di una solidarietà femminile che finisce col sovrastare perfino il rispetto nei confronti della sacerdotessa. Quella che vediamo muoversi sulla scena è inoltre un’immagine che stride con lo spessore espresso nella sua parte vocale, che il mezzosoprano Annalisa Stroppa ha comunque molto ben interpretato: una voce, la sua, calda e ricca di armonici, chiara e limpida negli acuti e ottimo sostegno nei duetti con Norma «Ah sì, fa core, abbracciami» e «Sì, fino all’ore estreme».  Il debutto in quest’ultimo ruolo di Csilla Boross ha tutto sommato soddisfatto le attese. Il soprano, intento continuamente a vestirsi e spogliarsi d’una pianeta da sacerdote, ha percorso con lodevole disinvoltura la scena senza che ciò andasse a scapito dell’esibizione vocale. La sua «Casta diva» ha conquistato applausi a scena aperta e regalato emozione nonostante fosse rivolta ad una fastidiosa luce a neon e non a quella argentea della luna. Una voce, la sua, che è stata capace di morbidezza nei pezzi più intimistici («Dormono entrambi!») e di possente imponenza nei momenti di rabbia e tensione (come il già citato Terzetto «Vanne, sì, mi lascia, indegno»). Soltanto negli acuti il canto rompe ogni tanto in grido, fatto che conferma la difficoltà interpretativa di un ruolo comunque molto difficile, contraddistinto da una scrittura virtuosistica audace che ha sempre richiesto una voce salda, potente e matura, in perfetta corrispondenza con il personaggio drammaturgico.
Non ha emozionato invece il Pollione di Aquiles Machado: alla sua voce timbricamente inadatta al ruolo – cioè quello del tenore romantico, molto proteso al registro acuto – si aggiunge un’emissione spesso debole, soprattutto nell’aria di presentazione «Meco all’altar di Venere», dove il registro acuto viene raggiunto stentatamente, con strozzature d’intensità. Forse lo salvano un buon fraseggio e una quasi sempre corretta intonazione, nonché i pezzi d’insieme, dove la linea di canto può appoggiarsi alle altre nascondendo i difetti più evidenti nelle parti solistiche.  Benché capo della Resistenza risoluto a cacciar via i tedeschi (che, nel testo, son sempre i romani!), il basso italiano Marco Spotti ci è parso piuttosto dimesso nei panni di  Oroveso poco incisivo, dal timbro piuttosto opaco, a cui ruba la scena un magnifico Coro del Teatro Massimo di Palermo, rabbioso e maestoso, che non ha davvero bisogno di sbattere borse e pugni sui muri della chiesa per manifestare il proprio desiderio di vendetta! Espedienti scenici come quest’ultimo, o come quello della lite da cabaret (o da commedia all’italiana) che conclude il Primo atto, con vestiti all’aria e scarpe e valigie lanciate da Norma in testa a Pollione, non fanno che rendere ridicolo un contesto che nasce invece come esempio di genere alto e tragico, e tradire dunque quell’ideale di purezza e di nobiltà d’animo tanto ammirato da Wagner e Schopenhauer. Corretto l’apporto di Patrizia Gentile (Clotilde) e Francesco Parrino (Flavio). Deludente in parte anche l’Orchestra del Teatro Massimo – nella direzione di un agitatissimo Will Humburg – per non aver mostrato in maniera costante quella fluidità d’esecuzione richiesta dalla scrittura belliniana. Soprattutto la Sinfonia ci è sembrata un succedersi di blocchi giustapposti scandito dalla presenza predominante dei piatti con accenti tipici di una banda di paese (come quella che ogni tanto attraversava il palcoscenico per annunciare l’arrivo di Norma); frammentata, con pause molto prolungate, l’enunciazione dei differenti temi in essa contenuti; poco elastiche, infine, le variazioni dinamiche. Repliche fino al 25 giugno. Foto Corrado Lannino / Studio Camera