Torino, Teatro Regio: “Carmen”

Teatro Regio, Torino – stagione lirica 2015-16
CARMEN
Opéra-comique in quattro atti su libretto di  Henri Meilhac e Ludovic Halévy dalla omonima novella di Prosper Mérimée
Musica di George Bizet
Carmen ANNA CATERINA ANTONACCI
Don José DMYTRO POPOV
Micaëla IRINA LUNGU
Escamillo VITO PRINTE
Frasquita ANNA MARIA SARRA
Mercédès LORENA SCARLATA RIZZO
Il Dancaïre PAOLO MARIA ORECCHIA
Il Remendado LUCA CASALIN
Moralès EMILIO MARCUCCI
Zuniga LUCA TITTOTO
Lilas Pastia e una guida SAX NICOSIA
Manuelita STELLA GELARDI
Orchestra e coro del Teatro Regio di Torino e coro di voci bianche del Conservatorio G. Verdi
Direttore Ryan McAdams
Maestro dei cori Claudio Fenoglio
Regia Matthias Hartmann
Scene Volker Hintermeier
Costumi Su Bühler
Luci Martin Gebhardt
Produzione della Opernhaus Zürich
Torino 03 luglio 2016
Il Teatro Regio continua in qualche modo l’abitudine degli ultimi anni di dare un saluto “diabolico” al proprio pubblico con l’ultimo titolo stagionale. Dopo gli autentici diavoli di “The Rake’s Progress” e “Faust” si passa, quest’anno, con “Carmen” dal soprannaturale al realismo più diretto ma è innegabile che anche l’eroina di Bizet non manchi di una scintilla luciferina.
Presenza frequente sul palcoscenico torinese, l’opera torna in questa produzione della Opernhaus Zürich firmata per la regia da Matthias Hartmann con le scene di Volker Hintermeier e i costumi di Su Bühler mai visti prima in Italia. L’idea di partenza del regista è senz’altro condivisibile in quanto toglie “Carmen” dal facile bozzettismo, dalla cartolina turistica dai colori sgargianti; resta, tuttavia, il problema che, procedendo su questa linea, ci si è spinti decisamente oltre così che la cura si è rivelata peggiore del male. Il primo atto è uno spazio vuoto: resta solo un ombrellone con il corpo di guardia – vestito per l’occasione con uniformi da carabinieri italiani –, mentre il via vai della piazza è solo immaginato. All’entrata delle sigaraie viene portato un cancello posticcio a evocare la fabbrica, tutto il coro è in divisa così che scompare il popolo e sono gli stessi soldati ad amoreggiare con le operaie mancando qualunque civile in questa città-caserma. Nel secondo atto si assiste ad una landa desolata, una sorta di Mahangonny sabbiosa dominata da un palo della corrente elettrica. La taverna è vuota e al suo interno non ci sono avventori se non i personaggi necessari per far andare avanti la scena mentre il coro entrerà solo insieme con Escamillo e sarà formato dai soliti militari. Meglio il terzo atto con la grande luna che splende su una landa desolata e sembra guardare come una divinità inflessibile l’inutile agitarsi degli umani. Nel quarto atto compare il popolo che commenta la sfilata – ovviamente solo immaginata e non rappresentata – mentre Siviglia e la Plaza de Toros cedono il campo a una campagna riarsa dominata da un grande ulivo e con un bucranio scarnificato posato su una roccia senza nessun altro elemento come unico arredo. I costumi genericamente moderni sono, come detto, divise da carabiniere per i militari e abiti alquanto trascurati per tutti gli altri; gli unici richiami alla Spagna sono la scritta ”polizia” sull’ombrellone che ripara Don José nel primo atto e la corrida trasmessa dalla televisione nella taverna di Lilas Pastias mentre il resto rimanda piuttosto alla Sicilia o all’Italia meridionale.
Il lavoro di regia è sostanzialmente lineare pur con qualche eccesso di violenza – l’aggressione dei militari nei confronti di Micaela, Zuniga sgozzato a freddo dal Dancairo – e qualche trovata forse più adatta a un’opera buffa come il cane che nel primo atto dorme al margine del proscenio e che muove allegramente la coda quando è accarezzato da Carmen o la bambolina di questa su cui Micaela sfoga la propria ira durante la grande aria del terzo atto. Resta l’attento e accurato lavoro di recitazione su tutti gli interpreti ma forse non basta a completare l’eccessiva povertà dell’insieme.
La parte musicale compensava ampiamente le lacune di quella scenica. Il giovane direttore statunitense Ryan McAdams, che, nella presente recita, sostituiva Ascher Fisch, ha fornito una lettura di grande originalità e suggestione. Per molti aspetti la sua idea non è dissimile da quella della regia: un togliere per giungere al nocciolo profondo della composizione, solo che in questo caso il risultato è decisamente più compiuto. Quella di McAdams è una “Carmen” essenziale, asciutta, senza inutili appesantimenti o turgori veristi; le sonorità sono chiare, nette, luminose, i ritmi sostenuti, spesso rapinosi, un’impostazione quasi belcantista nel suo rapporto con il canto così che i momenti più autenticamente comique ricevevano un’evidenza quasi insolita come il quintetto del secondo atto di un brio e di una mobilità ritmica ancora tutta così vicina ad Auber ma anche i momenti più drammatici non perdono forza rivisti in questa concezione totalmente musicale scevra di ogni manierismo. L’orchestra e il coro del Teatro Regio così come il coro di voci bianche del Conservatorio G. Verdi offrono una prestazione inappuntabile realizzando pienamente la particolare visione direttoriale.
Una lettura orchestrale di questo richiedeva inevitabilmente un cast allineato su questa specifica scelta espressiva e in questo non si poteva desiderare di meglio soprattutto sul versante femminile. Anna Caterina Antonacci non è solo una delle maggiori Carmen di oggi ma è l’interprete necessaria per questo tipo di interpretazione. Un’interpretazione essenziale, tutta risolta nei valori puri del canto e della parola senza alcuna concessione a facili effettismi. La tecnica esemplare, l’innegabile fascino timbrico, il perfetto controllo della prosodia francese, tutto è finalizzato alla costruzione complessiva del personaggio. Ecco un Habanera di una naturalezza estrema, di una semplicità quasi parlata dove traspare con chiarezza una schietta dichiarazione di vita più che un’esibizione seduttiva, un “Coupe-moi, brûle-moi“ raramente sentito così carico di sarcasmo e irrisione, un “Près de remparts de Séville” quasi sussurrato come un incantesimo. E nel finale Carmen che “Jamais je m’ai menti” non mente soprattutto alla sua vocalità e alla musica affrontato il duetto conclusivo con lo stesso rigore formale e lo stesso senso drammatico della parola con cui avrebbe affrontato una pagina di Gluck. Se a questo si aggiunge il magnetismo scenico e la soggiogante personalità della cantante a cui basta entrare in scena per monopolizzare l’attenzione e far scomparire come d’incanto le banalità della regia e gli inguardabili abitini a fiori da mercato rionale con cui viene assurdamente vestita.
L’altro elemento di forza del cast è la Micaela di Irina Lungu. Ogni volta che la si riascolta, non si può non apprezzare il continuo processo di maturazione della cantante russa che alle innegabili doti naturali ha saputo aggiungere una crescita giorno dopo giorno anche sul piano espressivo e interpretativo. Quindi non solo una voce di rara bellezza per timbro, colore e morbidezza di emissione ma un fraseggio sempre più intenso e curato – da segnalare l’intensità data a tante piccole frasi ad esempio nel finale del terzo atto – nella costruzione di un personaggio giustamente per nulla passivo o bamboleggiante ma forte e volitivo nella sua fragilità e di un’umanità intensa e coinvolgente. Gli uomini sono meno singolari soprattutto come interpreti ma le prestazioni offerte sono nell’insieme più che apprezzabili. Grande mozartiano e rossiniano Vito Priante è un Escamillo decisamente ben cantato e senza istrionismi o inutili gigionerie e, se forse latita un po’ di personalità, compensa ampiamente con musicalità e senso dello stile. Più complessa la situazione di Dmytro Popov, giovane tenore ucraino dagli interessanti mezzi vocali ma ancora in parte da raffinare. La voce è bella, schietta, dotata di buono squillo e l’interprete è nel complesso simpatico nel tratteggiare un Don José ingenuo e sostanzialmente immaturo; ci sono buone intenzioni esecutive come nella romanza del fiore non risolta in una semplice esibizione muscolare ma rimane sempre l’impressione di una non compiutezza, di un eccessivo affidarsi alle doti naturali. Nel quarto atto, infatti, si palesava qualche segno di stanchezza, di una maturazione ancora non raggiunta per un ruolo di questa complessità.
Di gran lusso lo Zuniga di Luca Tittoto e ottimamente centrate tutte le parti di fianco: Lorena Scarlata Rizzo (Mercédès), Anna Maria Sarra (Frasquita), Emilio Marcucci (Morales), Paolo Maria Orecchia (Le Dancaïre), Luca Casalin (Il Remendado), Sax Nicosia nel doppio ruolo parlato di Lilas Pastia e della Guida. Successo convinto per tutti gli interpreti.