Trieste, Teatro Verdi: “La battaglia di Legnano”

Trieste, Teatro Verdi, Stagione Lirica 2012
“LA BATTAGLIA DI LEGNANO”
Tragedia lirica in quattro atti su libretto di Salvatore Cammarano, dalla tragedia La bataille de Toulouse di Joseph Méry
Musica di Giuseppe Verdi
Federico Barbarossa ENRICO GIUSEPPE IORI
Il primo console di Milano FRANCESCO MUSINU
Il secondo console di Milano FEDERICO BENETTI
Il podestà di Como GABRIELE SAGONA
Rolando LEONARDO LÓPEZ LINARES
Lida DIMITRA THEODOSSIOU
Arrigo ANDREW RICHARDS
Marcovaldo GIOVANNI GUAGLIARDO
Imelda SHARON PIERFEDERICI
Un araldo ALESSANDRO DE ANGELIS
Uno scudiero di Arrigo NICOLA PASCOLI
Orchestra e Coro della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Direttore Boris Brott
Maestro del coro Paolo Vero
Regia Ruggero Cappuccio
Scene e costumi Carlo Savi con interventi di Mimmo Paladino e Matthew Spender
Luci Nino Napoletano
Allestimento in coproduzione tra Gran Teatre de Liceu di Barcellona e Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Trieste, 29 febbraio 2012

Difficile parlare di questa produzione de “La battaglia di Legnano” di Giuseppe Verdi  che la Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste ha coprodotto assieme alla Fondazione Teatro dell’Opera di Roma e al Gran Teatre de Liceu di Barcellona.
Difficile perché è poco rappresentato; perché è la prima volta che lo vedevo dal vivo; perché è una messa in scena irrisolta; perché la compagnia di canto è disomogenea.Alla recita cui ho assistito, in un Teatro Verdi abbastanza pieno ma con un pubblico freddo e molto, troppo contenuto, si esibiva il primo cast.
Ero trepidante di sentire nuovamente Dimitra Theodossiou in un ruolo  verdiano d’agilità…. sono rimasto piuttosto confuso. La sensazione finale non è positiva: la voce mostra vistose disomogeneità. Abusa di  mezzevoci che suonano più come “falsetti” mal controllati, il registro di petto forzato e con acuti tendezialmente striduli. Credo abbia pedissequamente rispettato la partitura di Lida che, indubbiamente, non è delle più facili…però  da un  soprano di così conclamata fama  mi aspettavo una tenuta tecnica maggiore, una sicurezza del mezzo vocale inappuntabile…decisamente  di più, insomma. L’attrice poi è  convenzionale: mani che si congiungono sul petto o in cerca del diaframma quando deve raggiungere qualche nota più difficile…un modo vecchio di stare in scena che è veramente superato.
Interessante, invece, la prova del tenore Andrew Richards nel ruolo di Arrigo che, a parte un timbro non propriamente felice e qualche acuto troppo nasale, risolve senza troppe insicurezze una parte ardita, sempre forzata e molto spinta. Da un punto di vista interpretativo è eroico e prestante al punto giusto.
Complessivamente valido il Rolando di Leonardo Lopez Linares: bel volume di voce (a volte anche troppo ostentato) e bel timbro, intonato e generoso anche se privo di un autentico lirismo, specialmente nella scena che culmina con il “Digli ch’è sangue italico” nel terzo atto.
Da sottolineare ancora il piglio deciso e la bella voce potente del Barbarossa di Enrico Giuseppe Iori, un basso che canta con accento vigoroso. Il coro se la cava egregiamente in un’opera che lo vede largamente protagonista, come in molte altre opere di Guseppe Verdi del periodo patriottico/eroico. Compatto, sicuro e dotato di bei chiaroscuri. Un “bravo!” a loro e al Maestro Paolo Vero che li dirige.
L’orchestra se la cava egregiamente, un po’ meno il suo Direttore Boris Brott che alterna momenti a clangori eccessivamente verdiani ad altri in cui non riesce a tenere insieme il palco e il golfo mistico. Volutamente ho lasciato per ultimi l’allestimento e l’opera in sé. Di questo titolo verdiano poco conosciuto devo dire che ho scoperto alcune pagine molto belle, come il terzetto e il finale del III atto, il Coro interno”Deus meus” con arioso di Lida e il finale dell’opera, altre più banalmente e forzatamente patriottiche, come un grande manifesto politico contro l’invasore (in verità austriaco) ma poco preziose musicalmente. Insomma, un Verdi da frequentare maggiormente per renderlo orecchiabile al pari di altri suoi capolavori. L’allestimento mi lascia perplesso come accennavo all’inizio. Il regista Ruggero Cappuccio, in concerto con lo scenografo e costumista Carlo Savi, ci conducono in un non luogo: forse una quadreria, forse un laboratorio di restauro, forse un museo. I costumi indossati dal coro sono abiti senza tempo ma, indubbiamente, non del 1200, mentre quelli delle prime parti e dei comprimari sono più vicini all’epoca. Il risultato finale sembra del tipo “diamo fondo a quello che avevamo in magazzino” ma, a meno che non si compri il libretto di sala e non lo si studi a memoria prima dell’inizio dello spettacolo, quello che il Capuccio e Savi volevano comunicare rimane piuttosto oscuro. E questa è una “moda” che detesto: ha ancora senso, oggigiorno, con la crisi teatrale e economica che stiamo vivendo, lasciare uno spettatore nel dubbio di non aver capito qual’era il messaggio? Di frastornare invece che sostenere? Di appesantire invece che coinvolgere o soddisfare? Ha senso se si hanno di fronte solo intellettuali, ma il pubblico d’opera è per sua natura variegato in età e cultura e, alla fine, il risultato è a mio avviso solo caotico e senza senso. Inoltre, aldilà di questo allestimento, ho trovato la regia vecchia, statica e affidata unicamente alla solerzia di una pseudo restauratrice e di quattro giovani comparse baldanzosi.