Tu che a Dio spiegasti l’ali

Nell’ottobre del 1954 Bergamo vide calcare le scene da Maria Callas nel ruolo dell’infelice e tragica eroina di Walter Scott. Una Callas già notevolmente alleggerita nel fisico e con un’insolita acconciatura platino che caratterizza le molte immagini di quell’anno!
E’ con enorme gioia che presentiamo a tutti gli internauti queste immagini del fotografo Welles, che documentano scena dopo scena il destino infelice Lucia, il tutto accompagnato da un articolo uscito sulla rivista “Melodramma” del febbraio dello stesso anno a celebrare un’altra Lucia , quella della produzione Scala di Milano diretta da Herbert von Karajan sempre con protagonista Maria Meneghini Callas. Buona visione !
10 giugno 1954, Bergamo, Teatro Donizetti ( Teatro delle Novità )
Gaetano Donizetti : Lucia di Lammermoor

Dramma Tragico in tre atti su libretto di Salvatore Cammarano da W.Scott
Miss Lucia
– Maria Callas / Sir Edgardo di Ravenswood – Ferruccio Tagliavini / Lord Enrico Ashton – Ugo Savarese
Raimondo Bidebant – Silvio Maionica / Lord Arturo Buclaw – Giuseppe Zampieri /Alisa – Lina Rossi / Normanno – Angelo Camozzi. Direttore:Francesco Molinari Pradelli. Maestro del Coro: Giulio Bertola – regia:Livio Luzzatto – Scene:Trento Longaretti
Capire la personalità di Donizetti non è facile, appunto per il suo genuino eclettismo cui la famosa fretta e i frusti convenzionalismi di obbligo confondono ancor più i lineamenti. Quello dell’autore di “Lucia” fu un artigiano violento, tormentato e insidioso. Doveva, per sopravvivere imporsi, non concedersi tregue. E tanto più grande fu lo sforzo in quanto obbligato all’artificio di uno stile che madre natura non gli aveva concesso. Rossini era ancora lì a due passi, a invadere le scene con la sua inconfondibile e impagabile verve, con la massiccia architettura delle sue opere. Bellini lo stringeva da presso, nella stretta e tortuosa via della gloria, avvantaggiato da un maggiore respiro, da un’imitabile purezza e suggestione di canti. Il genere comico e il genere tragico saltuariamente tentati non ubbidiscono soltanto alle esigenze del tempo, ma proprio nei traguardi più felici esprimono la disordinata urgenza della ispirazione. Conquiste dure, sofferte, apparentemente fortuite, strappate come perle ad un fondo marino frugato ed avaro. “Lucia” è la vera, grande creatura di Donizetti. Essa finalmente s’illumina di una particolare luce e si tinge di un particolare colore. Ad essa l’artista raccomanda ed affida tutto il pudore, l’audacia, la trepidante dolcezza, la delirante superbia della sua fantasia. Dalla mente dell’autore il personaggio esce con l’immediatezza di un impressionante presagio, dalle sue mani il modello sguscia dopo sudate elaborazioni, e c’è stato bisogno di un rosario di creature : dalla Bolena alla Fausta, alla Parisina, alla Lucrezia, alla Stuarda. “Lucia” è allo stesso tempo il personaggio più semplice, innocente, sensazionale ed audace dell’intero mondo del melodramma. Non è l’eroina, ma trasfigurazione allucinata e moderna di una creatura debole, vinta, e sovraccarica di umanità e di orrore. E c’èvoluto il coraggio di un uomo di teatro e di un musicista d’eccezione per buttare alla ribalta uno dei fantasmi più crudeli dell’iperteso e romanzesco romanticismo. La fidanzata, l’assassina, la pazza, contro un fondale storico che non eccita nessuna emozione. Eppure Lucia è e rimane una delle invenzioni più soavi del repertorio melodrammatico. col-sovraintendente-del-teatro-di-bergamoData la forza della sua caratterizzazione musicale, è il perno dei sentimenti, dei fatti, delle cose che la circondano. Morta lei, sembra che più nulla rimanga sulla scena, ed il successivo quadro con il suicidio di Edgardo, presso le tombe dei Ravenswood, pur nella logica razionale del dramma e dei valori dell’interpretazione donizettiana , giunge come una postilla superflua, sottintesa e scontata. Anche la timbrica strumentale, che qui acquista rilievo quasi per sopperire alla scomparsa dello straordinario mezzo d’espressione (la voce della protagonista), non riesce a destare nuova emozione, ma soltanto interesse, con quella sua tavolozza così carica e riassuntiva di umore notturno. Lo strumentale , prima, aveva conosciuto ben poche ebbrezze. L’impegno maggiore, tranne il solito sottobosco non di rado bandistico, se l’era assunto, a turno, qualche strumento in funzione solista e di dialogato con la voce. Pochi tocchi sapienti, a sottolineare o ad assecondare la presenza e lo stato d’animo dei personaggi, e specie di Lucia.
L’arpa deliziosamente ottocentesca che l’introduce all’inizio, l’oboe rassegnato e triste che prepara al colloquio con Enrico, i violoncelli, malinconicamente appassionati, per la scena delle nozze, il flauto, il celebre flauto della pazzia, nell’astrazione musicale più sconcertante e stupenda.
Questa specie di canone che sembra precedere il canone delle due morti, congiurando col timbro bianco e rarefatto alla realizzazione del fidanzamento eterno, non è cosa che appartenga a questo nostro pianeta. Ed anche la costruzione musicale, fino a qui risolta con energica e quadrata disinvoltura, pare staccarsi di colpo dai righi del pentagramma e salire in alto, dove non valgono più i compassi dell’uomo.
Lucia e il flauto, lassù, ignorano le formule e annodano nelle nuvole i ricordi. Non noi, che abbiamo le orecchie golose dei deliziosi trilli possiamo scorgerli in questi passatempi da angeli, e sarà Edgardo che, toccato dalla grazia della visione negli attimi che precedono la sua morte, ce lo dirà: “Tu che a dio spiegasti l’ali”. Ce lo dirà con un canto che è tra i più ricchi e i più belli, in un’opera che alla ricchezza e alla potenza del canto affida pregi e miracoli dell’espressione. DA MELODRAMMA 1 FEBBRAIO 1954