“Un ballo in maschera” al Teatro Comunale di Sassari

Sassari, Teatro Comunale – Stagione Lirica 2016
“UN BALLO IN MASCHERA”
Melodramma in tre atti su libretto di Antonio Somma
Musica di Giuseppe Verdi
Riccardo ALESSANDRO LIBERATORE
Renato ERNESTO PETTI
Amelia CELLIA COSTEA
Ulrica BRUNA BAGLIONI
Oscar GIULIANA GIANFALDONI
Silvano FEDERICO CAVERZAN
Samuel GIANLUCA LENTINI
Tom ENRICO RINALDO
Un giudice/Un servo FRANCESCO CONGIU
Orchestra dell’Ente Concerti Marialisa de Carolis
Coro dell’Ente Concerti Marialisa de Carolis
Direttore Myron Michailidis
Maestro del coro Antonio Costa
Regia e disegno luci Pier Francesco Maestrini
Scene e costumi Alfredo Troisi
Allestimento “La Bottega Fantastica” di Daniele Barbera
Sassari, 4 novembre 2016   
Seconda opera della stagione lirica, organizzata dall’Ente Concerti Marialisa de Carolis al teatro Comunale, Un ballo in Maschera ritorna a Sassari dopo quasi trent’anni e a distanza di quarantuno dalla mitica produzione che vide insieme, sul palcoscenico del locale teatro Verdi, Carlo Bergonzi, una giovane Mariella Devia nel ruolo di Oscar e Bruna Baglioni che aveva da poco debuttato alla Scala. Si tratta evidentemente di un titolo non particolarmente praticato nelle stagioni liriche cittadine nonostante la sua importanza fondamentale nella transizione dagli “anni di galera” dell’autore verso la propria produzione più meditata e matura. Il fascino dell’opera, e il suo limite, è in buona parte costituito proprio dall’ambiguità di tutte le zone di mezzo, un capolavoro comunque in cui convivono aspetti contrastanti di non facile soluzione, sia dal punto di vista musicale che drammaturgico. Il testo letterario in questo senso non dà certo una mano, nonostante il prestigio di Antonio Somma: la soluzione di alcune scene, le numerose incongruenze nell’accentuazione ritmica dei versi e nelle metafore poetiche hanno fatto del libretto uno storico termine di paragone negativo. D’altra parte Verdi fa un passo avanti e introduce delle innovazioni che saranno più evidenti nella propria produzione successiva, come l’utilizzo del leitmotiv e di un linguaggio armonico e coloristico maggiormente ricercato rispetto alle opere precedenti. Tale ricercatezza sembra muoversi su un piano parallelo rispetto allo stile popolare di vari pezzi chiusi che, grazie anche a forme strofiche ed elementi particolarmente semplici e immediati, richiama evidentemente altre opere del passato; prima di tutto senz’altro Rigoletto, anche nelle atmosfere musicali e nella commistione di tragico e ironico di varie scene. L’approccio, o meglio gli approcci, potrebbero quindi essere molteplici nei confronti di un titolo certamente non semplice da interpretare, che si presta a un ampio ventaglio di possibilità di lettura: prediligere l’aspetto più vitale, ritmico e immediato? Oppure evidenziare le preziosità meno evidenti nella partitura trattando con più distacco ciò che Verdi, a quanto pare da certi accenni ironici delle sue lettere, riteneva il prezzo da pagare al pubblico? E come realizzare scenicamente un’opera ripetutamente traslata durante la sua creazione di epoca, luogo e personaggi a causa delle note vicende di una censura ottusa e burocratica? L’allestimento dell’altra sera apparentemente non è sembrato compiere alcuna scelta particolare, ripiegando su una regia assolutamente convenzionale, con tanto di fondali, praticabili, costumi d’epoca (di Alfredo Troisi) e qualche elemento di arredo che spostano l’azione di un paio di secoli avanti nel tempo, rispetto al XVII secolo dell’ambientazione originale. Il regista Pier Francesco Maestrini costruisce il suo lavoro sull’identificazione tra la figura del protagonista, Riccardo conte di Warwich, e quella di Abramo Lincoln, 16° presidente degli Stati Uniti, vittima storica anche lui di un’oscura congiura e simbolo del potere buono e illuminato. In se l’idea non manca di fascino, anche perché l’assassinio di Lincoln, nel 1865, finisce quasi per coincidere con l’epoca di composizione dell’opera, spostando di fatto l’ambientazione nella contemporaneità dello stesso Verdi. Il guaio è che non bastano Rin Tin Tin in scena con qualche didascalico siparietto durante il preludio per creare veramente un’ambientazione adeguata: ciò per varie ragioni, anche obiettive. Prima di tutto nell’immaginario collettivo dello spettatore medio gli Stati Uniti, in quel periodo, rappresentano un luogo talmente radicato e (falsamente) familiare da rendere vano qualunque tentativo di trasporvi vicende che, di fatto, non gli appartengono; anche perché il pastrocchio dell’ambientazione “originale” è a sua volta talmente poco credibile che è difficile per chiunque assistere a Un ballo in maschera senza collocarlo nel solito indefinito passato di tante opere verdiane, ma senza alcuna vera necessità di inquadrarlo in un certo luogo e periodo. Proprio per tale indeterminatezza storica, il tentativo di un preciso riferimento reale stride veramente troppo con alcuni passi del libretto: sentir chiamare “conte” in continuazione il protagonista, per esempio, in un paese che tra l’altro i titoli nobiliari li aveva aboliti un secolo prima, distrugge anche la labile illusione scenica che si vorrebbe creare. Anche il gesto finale di Riccardo, che rimanda Renato e Amelia in Inghilterra, finisce per essere stravolto nella sua nobile motivazione e appare un esilio dal sapore punitivo che toglie qualunque significato effettivo alla scena. Alla fine del terzo atto quindi la rievocazione storica dell’attentato a Lincoln risulta un’operazione posticcia, priva di qualunque pathos capace di costruire un minimo di emotività nella vicenda. Anche la mancanza di scelte precise che identifichino con precisione una direzione nella recitazione o la goffaggine di certe scene, come la scoperta dell’identità della donna velata e certe brutte luci lampeggianti nei momenti topici, finiscono per far scivolare il tutto in una genericità che non giova certo alla narrazione.
La stessa genericità appare anche nella concertazione dove il direttore Myron Michailidis tiene l’insieme con una certa fatica e, pur con alcune agogiche interessanti, sembra prevalere più che altro la necessità di portare senza troppi incidenti la recita al termine. Evidenti sia in buca sia nel rapporto col palcoscenico varie incertezze nell’intonazione e nella precisione ritmica, come nella delicata scena finale del ballo dove coro e orchestra si sono trovati chiaramente sfasati: è apparsa ancora una volta l’inutilità di avere buoni organici se poi non si ha la possibilità di provare adeguatamente l’insieme per valorizzarli. Anche il palcoscenico non ha certo brillato, a partire dalla scelta un po’ azzardata di richiamare Bruna Baglioni nel ruolo di Ulrica dopo più di quarant’anni. Chi vi scrive era presente, ragazzino inconsapevole al suo primo spettacolo lirico, alla storica recita del 1975 e ricorda bene l’entusiasmo del pubblico per una compagnia stellare, dove la Baglioni si imponeva per classe e straordinaria vocalità; ma adesso viene difficile comprendere la logica artistica e personale di un’operazione del genere che chiaramente non aggiunge nulla alla carriera di quella che è stata una grande cantante e all’interesse della cultura locale. C’è da dire che sentire una signora settantenne portare a termine una recita, sfoderando per giunta alcuni suoni medio – acuti talmente fermi e belli da far invidia a colleghe con la metà dei suoi anni, fa gridare al miracolo: ma non può certo bastare l’indubbio carisma per compensare ciò che il tempo impone. Proprio la fermezza dei suoni sembra essere il principale problema di Cellia Costea nel ruolo di Amelia: la voce è bella e importante ma, anche rispetto all’anno scorso in Aida, sembra accentuarsi un vibrato talmente ampio in tutte le zone del registro che spesso tende anche a inficiare l’intonazione e il controllo delle dinamiche. Apprezzabili comunque le intenzioni espressive e assai ben realizzata la tenuta emotiva nella romanza Morrò, ma prima in grazia, con una nota di merito anche per l’ottimo supporto del violoncello solo. Discreta nel complesso la prestazione di Alessandro Liberatore, protagonista di un’opera indubbiamente impegnativa che pone il suo ruolo come centro assoluto di tutta la costruzione drammaturgica. La vocalità, seppur non ricchissima di sfumature, è adatta al personaggio che è risolto più sul piano squisitamente musicale che teatrale. Ben cantati tutti i passaggi decisivi, con una particolare freschezza nella celebre La rivedrà nell’estasi, ma è stata avvertibile nel terzo atto una certa stanchezza, visibile nella forzatura e nella perdita di fuoco di alcuni suoni vicini al passaggio. Ernesto Petti, nel ruolo di Renato, ha i suoi limiti in una vocalità con vistose disuguaglianze di registro e fondamentalmente non proprio adatta alla parte. I centri sono scuri e ben timbrati, gli acuti invece appaiono spesso disuguali, molto più chiari e talvolta forzati, mentre il registro grave è praticamente inesistente. Apprezzabile comunque una certa abilità nella recitazione e interessante l’approccio a Eri tu che macchiavi quell’anima, con un’intensità trattenuta decisamente efficace. Brillante e convincente il giovane soprano leggero Giuliana Gianfaldoni, Oscar impeccabile grazie alla propria freschezza vocale in tutte le sue note sortite, anche se il ridicolo travestimento da Rusty, padrone di Rin Tin Tin, la confina nel contesto in un personaggio caricaturale, lontano dalle corde originali. Gianluca Lentini ed Enrico Rinaldo, anche loro poveri nel registro grave per essere veramente aderenti al tradizionale colore dei loro personaggi, riescono comunque a caratterizzare il loro ruolo in maniera sicura e abbastanza efficace grazie a una buona recitazione e a una vocalità ben proiettata e interessante; apprezzabile anche Federico Cavarzan nella parte di Silvano. Buona infine la prestazione del Coro dell’Ente Concerti preparato da Antonio Costa, a suo agio nel repertorio che gli è congeniale, con un plauso particolare per la sezione maschile, quest’anno ben fusa e compatta. Il pubblico, meno numeroso rispetto al Flauto magico d’apertura, ha mostrato complessivamente di gradire lo spettacolo, ma senza particolari entusiasmi.