Venezia, Teatro La Fenice: “Don Giovanni”

Venezia, Teatro La Fenice – Stagione d’opera e balletto 2013-2014
“DON GIOVANNI”
Dramma giocoso in due atti KV 527 su libretto di Lorenzo Da Ponte
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Don Giovanni ALESSIO ARDUINI
Donna Anna JESSICA PRATT
Don Ottavio JUAN FRANCISCO GATELL
Leporello ALEX ESPOSITO
Donna Elvira MARIA PIA PISCITELLI
Zerlina CATERINA DI TONNO
Masetto WILLIAM CORRÒ
Commendatore ATTILA JUN
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice di Venezia
Direttore Stefano Montanari
Maestro del coro Claudio Marino Moretti
Maestro al cembalo Roberta Ferrari
Regia Damiano Michieletto
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Luci Fabio Barettin
Allestimento del Teatro La Fenice di Venezia
Venezia, 16 ottobre 2014

Torna al teatro di campo San Fantin il “Don Giovanni” che nel 2011 valse un “Premio Abbiati” e cinque “Opera Award”, continuando a suscitare l’interesse e la partecipazione del pubblico veneziano. Se Mozart sosteneva che la cosa principale dovesse essere il lato buffo, mentre il librettista classificava l’opera come “dramma giocoso”, oggi possiamo riconoscere che uno dei motivi del successo di questa composizione mozartiana risiede proprio nell’ambivalenza tra i caratteri seri e quelli buffi, le atmosfere cupe e quelle pseudo-comiche, le arie di tradizione e le deviazioni sperimentali al servizio dello sviluppo drammaturgico, oltre che nella sua spontanea attualizzazione dovuta alla varietà dei personaggi in scena.
Questo non sfugge al regista Damiano Michieletto, il quale si misura con un attento e preciso approfondimento delle complesse relazioni tra i differenti caratteri, tendendo ad amplificare gli stati d’animo prevalenti dei personaggi e ponendo il protagonista come polo attrattore verso cui tutti gli altri convergono, senza il quale lo sviluppo dell’intreccio è destinato ad arrestarsi. Il “suo” Don Giovanni è infatti l’autentico primattore dello spettacolo, dominatore della scena anche quando non dovrebbe essere presente, come nel racconto di Donna Anna, dove lo vediamo vincere la ragazza che distesa sopra di un tavolo scivola sul telo che egli tira verso di sé a sintetizzare la riuscita latente della seduzione, nella seconda aria di Zerlina, in cui la giovane pone sul suo cuore la mano del cavaliere invece di quella dell’amato Masetto e soprattutto nella scena ultima dove, a dispetto delle parole del sestetto, si aggira per il palco quasi prendendosi gioco degli altri personaggi che ad un suo gesto sprezzante cadono tutti improvvisamente a terra come burattini shakespeariani esanimi. Significativo come un Leporello decisamente buffo, spiccatamente timoroso, capace soltanto di imitare goffamente il padrone ed una Donna Elvira carica d’umanità s’incontrino quasi a formare un binomio alla fine dell’aria del catalogo, stretti in un abbraccio che mette in luce due forme differenti di sofferenza dovute a Don Giovanni: l’ammirazione inavvicinabile del servo verso il padrone e la profonda disillusione d’amore della dama. Il carisma del ruolo principale si ripercuote poi in modo particolare sulla relazione tra Don Ottavio e Donna Anna che, dopo l’aggressione iniziale, appare incapace di riuscire a provare una qualunque forma di legame col fidanzato, di cui il regista enfatizza l’impotenza e l’incapacità di agire nel concreto. A questo proposito, non si può fare a meno di notare ciò che avviene durante le due arie del tenore: nella prima egli rimane distante dalla sua donna, piangente sul letto la scomparsa del padre, inerte e senza essere in grado di sfiorarla o consolarla a gesti, mentre nella seconda, benché sembri risoluto a vendicare i torti della ragazza, trova opposizione in una schiera di porte che resistono senza aprirsi ai suoi calci, coprendosi di ridicolo. L’elemento che rende entusiasmante e di alto profilo questa produzione, infatti, è essenzialmente l’unicum consistente tra regia, scenografia, luci e costumi a cui si assiste.
In particolare, il delicato combattimento interiore che porta spesso i personaggi in bilico tra l’allontanarsi ed il riavvicinarsi viene agevolato dalla continua rotazione scenica prevista da Paolo Fantin, che rinchiude la vicenda entro una originale trappola labirintica e decisamente claustrofobica, assolutamente funzionale a rendere l’idea di caratteri che si affannano in una incessante lotta contro i loro più logoranti sentimenti interiori senza riuscire mai ad evaderne completamente, rimbalzando da un ambiente all’altro in una dinamicità scenica che riflette quella dell’azione o svanendo nello sconfinamento oscuro delle luci del fondo scena, contribuenti a dare l’impressione di un prolungamento indefinito degli interni. Rispetto a questo, le piccole scollature col libretto, inevitabili in un allestimento che non prevede esterni, sono poco influenti.  Il senso di oppressione viene inoltre accentuato dal fatto che il susseguirsi del dedalo di stanze riproponga sempre pareti analoghe senza finestre, con carta da parati grigio-azzurra decorata da motivi ripetitivi e regolari entro cui sono inseriti relativamente pochi elementi in stile classico tra i quali risaltano i porta lume di candela di fattura curiosamente più veneziana che spagnola, mentre gli arresti dei cambi di scena tra due diversi ambienti consentono di seguire l’azione in modo quasi cinematografico.
In questo quadro, l’illuminazione di Paolo Barettin favorisce la scansione tra le parti buffe e quelle serie dell’opera, spiegando visivamente cosa s’intenda per “dramma giocoso” con i suoi picchi di maggior luminosità nelle scene di contadini o d’insieme e le puntuali diminuzioni d’intensità al momento delle arie e dei recitativi drammatici, in un dualismo d’atmosfera che si fonde con un uso congeniale delle candele che, essendo l’unica fonte d’illuminazione della scena del ballo in chiusura del primo atto, permettono con originalità di non prevedere il canonico inserimento delle maschere. Gli effetti dell’amplificazione delle ombre degli interpreti sui muri di sfondo sembrano poi rimandare ad una fuoriuscita dei sentimenti dai singoli caratteri, verso una loro attualizzazione universale. Su quest’onda, il flusso di una regia attuale in quanto realistica, a tratti spinta, culmina nel banchetto finale in cui con una trovata davvero d’effetto le pietanze sono sostituite da ragazze a seno scoperto ed, ancora maggiormente, nella resa dei conti col commendatore, dove un tormentato ma coerente Don Giovanni, che non si pente delle sue azioni e si mostra pronto nuovamente a ripetere l’assassinio, viene inghiottito da una girandola scenica che vortica su ambienti offuscati ripieni dei peccati del giovane tra cui, per ultimo, troviamo il letto su cui è stato pugnalato il commendatore, riepilogo che conferisce un assetto circolare al dramma e sostituisce così lo scontato inghiottimento negli inferi con un sottile ripiegamento psicologico. In linea con le rispettive gerarchie sociali e senz’altro degni della rappresentazione dal punto di vista della fedeltà all’ambientazione settecentesca, i costumi di Carla Teti hanno il giusto sapore tradizionale e concorrono al clima d’eccesso del finale in cui le camicie di Don Giovanni e Leporello divengono usurate nei bordi, lise nelle loro pieghe, ad evocare la consunzione dell’animo. Il profilo musicale brilla per la presenza di artisti di calibro capaci di offrire uno spettacolo di elevato spessore interpretativo.
Colpisce piacevolmente la conduzione di Stefano Montanari, il quale guida con consapevolezza l’orchestra della Fenice sulle note della versione di Praga, recuperando da quella viennese le due pagine (l’aria “Dalla sua pace” di Don Ottavio ed il “Mi tradì” di Donna Elvira) che generalmente fanno parte della tradizione esecutiva.  La sua direzione fornisce già dai gorghi della celebre ouverture un incisivo ritratto della dicotomia formale e contenutistica di quest’opera, destreggiandosi con naturalezza tra la riproduzione del solenne incedere dei legni che prefigurano il commendatore ed i disegni sincopati dei violini in affanno, mantenendo compatti i suoni senza esuberi e guardando con rispetto, nel seguito, alle scelte dei singoli cantanti.
Competente nel muovere il classicismo della partitura con tocchi di freschezza timbrica, il direttore opta prevalentemente per ritmi rapidi, ad evocazione dell’agire frenetico dei personaggi, dimostrando comunque delicatezza nelle parentesi intimiste, grande cura nei recitativi accompagnati e raggiungendo sempre gli esiti coloristici dettati dallo spartito, sia nelle arie specifiche che nei fugaci incisi di transizione. L’accompagnamento di soli archi durante l’aria “Ah fuggi il traditor” di Donna Elvira ha così potuto raggiungere la sua reminiscenza antica mentre, riguardo alla musica di scena, il direttore ha potuto contare sui precisi interventi del maestro al cembalo Roberta Ferrari. Nel ruolo dello “sciupafemmine” per antonomasia, Alessio Arduini ne esce con successo per il calzante atteggiamento scenico, instancabile nel seguire i convulsi dettami della regia, sempre pronto alle prese per i fianchi o nell’intrufolare mani e capo al di sotto delle gonne, evidenziando grande resistenza attoriale nell’affrontare la lunga parte con vigore, irascibilità ed irruenza. Il versante musicale è però contrassegnato da uno strumento vocale di potenza moderata che sfocia alle volte in lievi forzature salendo all’acuto. Se l’aderenza alla musica gli permette di venire a capo ritmicamente bene dell’aria dello champagne, manifestando coesione tra l’indole frenetica della recitazione e la linea di canto, la tendenziale fumosità dell’emissione non rende del tutto efficace la celebre serenata dove, nonostante gli smorzamenti del volume, la mezza-voce non riesce appieno. Più in generale, nonostante l’evidente impegno dell’interprete nel dosaggio delle intensità, i passaggi di colore avvengono con poca continuità e con fissità di volume all’interno delle frasi, mentre l’accento rimane sostanzialmente generico, restituendo solo in parte la natura musicalmente caleidoscopica. Non delude le aspettative la prova di Alex Esposito come Leporello. Con lui, siamo di fronte ad un interprete nella piena accezione del termine e la disinvoltura cui calca la scena testimonia grande esperienza nel ruolo. Sviluppando la parte con fare praticamente protagonistico, il basso si distingue per un efficace approfondimento del fraseggio a cui accompagna frequentemente singhiozzi, pianti, risate, sbuffi tra i denti e balbettii, perfetti in una produzione che ne sottolinea l’aspetto pauroso, mantenendo sempre una dizione precisa nell’ottica di una recitazione in strenuo controllo per l’intera esecuzione. La discreta proiezione vocale è piuttosto curiosa, poiché la voce gonfia amplificandosi subito dopo essere stata emessa, aspetto che forse ne diminuisce a tratti la limpidezza ma che consente di vedere un Leporello talvolta anche credibilmente risoluto, come nell’applaudita aria del catalogo dove l’appropriato uso cromatico contribuisce a restituire un personaggio sì buffo, ma altrettanto arguto nell’insinuarsi con sottigliezza nell’animo di Elvira. Le ragguardevoli doti vocali di Jessica Pratt emergono distintamente anche in un ruolo non prettamente da prima donna come quello della figlia del Commendatore.  Dopo l’evidente esasperazione nel subire il sopruso del primo atto, la Donna Anna della Pratt si chiude in un atteggiamento sentitamente dolente ed impenetrabile, noncurante dell’impegno del fidanzato e se il profilo scenico stupisce per raffinatezza e nobiltà, nel contrasto tra l’indagine interiore e lo sfogo emotivo, ciò che rende la sua interpretazione di alto livello è il ritrovare questi elementi, realizzati in modo ineccepibile, dal punto di vista vocale.
L’attenzione all’aderenza tra musica e testo, che la porta ad un fraseggio personalmente rielaborato, unita ad un costante interesse nella dinamica che con smorzamenti e crescendo emessi in modo incredibilmente controllato riesce ad essere cangiante anche da una nota all’altra nel seguire la modulazione degli stati d’animo, preannunciano infatti fin dal principio le basi per un’esecuzione di rilievo.  Ed è così che la ascoltiamo intraprendere la prima aria (“Or sai chi l’onore”) con incisività d’accento, naturale squillo nelle frasi d’attacco e notevole proiezione del suono senza forzature timbriche, trasmettendo con efficacia il desiderio di vendetta senza mai perdere in eleganza, mentre il rondò dell’ultimo atto è ricamato con singolare limpidezza d’emissione tra la finezza dei legati, impreziosito da una originale variazione in acuto che precede la riproposizione del tema, indice della facilità del soprano nella salita dell’estensione in cui il timbro è particolarmente lucente. Non le rimane difficile superare la temibile frase “abbastanza per me mi parla amore”, eseguita con intonazione impeccabile e precisione nei passaggi semitonali, né la linea di canto s’incrina nelle tortuose e ben legate agilità finali che l’interprete porta a termine con rapidità e senza interruzioni respiratorie, volgendo con destrezza il canto sui picchettati di transizione in modo da riflettere uno stato emotivo crescente che sfocia nel pianto.
Degna di nota, inoltre, la sua propensione a prevalere nettamente in quartetti e sestetti, non per interventi di forza ma per la sottigliezza tecnica di filati e passi virtuosissimi di sicura emissione. Il timbro chiaro e la voce leggera di Juan Francisco Gatell si fondono invece in modo appropriato col ritratto della scarsa tempra del personaggio, dando l’impressione di un Don Ottavio alle cui parole si stenta veramente a credere e che si prefigura principalmente come spettatore della vicenda anche quando tenta d’inserirsi nell’insieme, dove la tenue proiezione del tenore finisce ancor più per disperdersi. L’emissione delle frasi si adatta fedelmente allo spartito e le sue due arie sono abbastanza piacevoli grazie alla soffusa linea di canto sulla delicata base orchestrale, benché la dinamica oscilli senza particolari effetti di transizione tra il mezzo piano ed il mezzo forte ed il vibrato sia spesso abbozzato. In particolare, se nella prima si rilevano alcune inflessioni di gola oltre ad esili tenute dei fiati verso l’acuto, nella seconda la buona gestione della respirazione non impedisce alcune asciuttezze nelle inserzioni d’agilità. Di carattere, manesca ed un po’ nevrotica, ma anche dolce e compassionevole, Maria Pia Piscitelli regala alla dama di Burgos la voce di soprano. Ben capace di drammaticità d’accento e dotata di un vellutato e squillante registro centrale, delinea una Elvira di grande presenza scenica, che si eleva al serio, ora perentoria ed ora pronta ad assottigliare il volume per fini introspettivi. Nell’estensione della parte, la voce suona sempre molto “a fuoco” e ben timbrata, rimanendo all’altezza anche nei momenti in recitativo, in cui le frasi vengono affrontate con studiata espressività. Certo, si nota un lieve stemperamento timbrico nell’approcciarsi alla zona acuta oltre a qualche stacco superfluo nella respirazione durante la resa moderata delle vocalizzazioni del “Mi tradì”, ma ciò non inficia un’esibizione decisamente soddisfacente. La terza donna dell’opera, Caterina Di Tonno, completa il trio femminile in modo assolutamente dignitoso. Soprano leggero dalla recitazione maliziosa e spontanea, l’interprete di Zerlina sembra per una volta assai affezionata al suo Masetto, meno ingenua del solito riguardo le “avance” del cavaliere. Il suo fraseggio assolve al lato civettuolo del carattere con freschezza d’accento e la cantante scava nella parte con particolare dedizione al risalto degli abbellimenti, mettendo in luce tutti i passaggi tecnici senza appianamenti come dimostrano i ben eseguiti inserti virtuosistici ed i cullanti elementi ondeggianti. La sua voce non trova problemi a diffondersi per la sala dove riecheggia il timbro diamantino, giusto lievemente opacizzato da uno sporadico uso serrato del vibrato.
D’altro canto, il giovane Masetto di William Corrò convince essenzialmente per l’impulsività e l’ostinatezza di un’interpretazione energica ed in gran forma, che certamente trasmette nel fraseggio la rabbia repressa ed il godimento nel prendersi la rivincita sul seduttore, ma non sembra ancora aver del tutto trovato l’adeguata caratterizzazione vocale del personaggio, non aiutato da un volume generalmente debole. Autoritari, con maggior incisività nel finale seppur senza le spinte tenebrosamente intense di un basso profondo, gli interventi di Attila Jun alle prese con le declinazioni scure della parte del commendatore.  Il coro del Teatro La Fenice, sotto la guida del maestro Claudio Marino Moretti, completa infine le ridotte scene d’insieme con la professionalità musicale che lo contraddistingue, senza sottovalutare l’impegno nelle movenze registiche ed inserendosi da dietro le quinte con tono categorico nel momento che precede il drammatico congedo del protagonista. In laguna, il pubblico si mostra affettuoso verso tutti gli interpreti, l’orchestra ed il coro del teatro, calore che conferma ancora una volta la riuscita di un allestimento il cui successo sembra lontano dall’attenuarsi.