Verona, Teatro Filarmonico: “Rigoletto”

Verona, Teatro Filarmonico – Stagione d’opera e balletto 2015/16 
“RIGOLETTO” 
Melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave, dal dramma “Le roi s’amuse” di Victor Hugo.
Musica di Giuseppe Verdi   
Il duca di Mantova ALESSANDRO SCOTTO DI LUZIO
Rigoletto LEO AN
Gilda MIHAELA MARCU
Sparafucile GIANLUCA BREDA
Maddalena CLARISSA LEONARDI
Giovanna ALICE MARINI
Il conte di Monterone ALESSIO VERNA
Il cavaliere Marullo TOMMASO BAREA
Matteo Borsa ANTONELLO CERON
Il conte di Ceprano ROMANO DAL ZOVO
La contessa di Ceprano / Un paggio FRANCESCA MICARELLI
Un usciere di Corte DARIO GIORGELÉ
Orchestra e Coro dell’Arena di Verona
Direttore Fabrizio Maria Carminati
Maestro del coro Vito Lombardi
Regia e Coordinamento costumi Arnaud Bernard
Scene Alessandro Camera
Allestimento della Fondazione Arena di Verona
Verona, 13 marzo 2016  
Della Trilogia popolare Rigoletto è forse l’opera che scava più approfonditamente nell’animo umano, portandone alla luce il lato più depravato e difforme. Il gobbo buffone di corte è un non-uomo e, messo costantemente a confronto con il Duca, un altro non-uomo (giovin, sì possente, bello quanto infido e maligno) diventa una sorta di ritratto di Dorian Grey, fisicamente carico delle colpe del suo padrone. Non poteva che scagliarsi su entrambi, dunque, la maledizione di Monterone, bollato come pazzo proprio a ragione della distorta morale su cui tutta l’opera si fonda. Ma la depravazione non è solo qualcosa di palpabile, alla corte del Duca di Mantova: al nobile misogino non basta possedere una donna, ha bisogno di sedurla, di fingersi innamorato, di credersi innamorato per ritenersi realmente soddisfatto, tant’è che la donna è mobil e solo in quanto tale per lui questa o quella pari sono.
È dunque un peccato, a fronte di così numerosi spunti, limitare la figura del Duca ad una specie di adolescente infoiato, che strappa corsetti a destra e manca. Certo, siamo lontani da Don Giovanni, ma anche ridurre il Duca ad un semplice stupratore non ne rende adeguatamente lo spessore. Il Duca è pur sempre un seduttore, non particolarmente raffinato, ma di intelligenza sufficientemente sottile da fargli assumere la maschera del povero Gualtier Maldé per conquistarsi le attenzioni della sventurata Gilda. Fatte queste considerazioni, stupisce che a fronte di nudi in scena e altre amenità nella rappresentazione di domenica al Teatro Filarmonico siamo rimasti ancora ad “una stanza e del vino” che rende incomprensibile il “son questi i suoi costumi” pronunciato con disprezzo da Rigoletto nel terzo atto ad un pubblico che non necessariamente conosce l’originale “tua sorella e del vino”. La scena, curata da Alessandro Camera, si apre sull’interno del Palazzo, in quella che somiglia ad una biblioteca: al centro della scena, Rigoletto che porge la propria gobba ad un Duca-chirurgo, mentre un ragazzo muscoloso si aggira per il palcoscenico con un asciugamano addosso: grazie, ma perché? Più avanti all’interno della scena si inserisce la torretta in cui viene tenuta segregata Gilda, mentre il momento più suggestivo è certamente l’ultimo atto: la locanda di Sparafucile e Maddalena si trova all’interno di un’imbarcazione circondata dalla nebbia. La regia, curata da Arnaud Bernard, meriterebbe sicuramente un approfondimento, ma oltre ai dubbi lasciati dal primo atto la mano del regista non riesce ad incidere con efficacia sui protagonisti, spesso statici o lasciati a se stessi nei duetti e nelle scene d’assieme. Alessandro Scotto di Luzio è un Duca ancora acerbo, privo di squillo e di verve espressiva. Nonostante le buone intenzioni numerosi sono stati gli errori tecnici e interpretativi, per quanto questi ultimi vadano in parte attribuiti ad una regia di gusto opinabile. Forse fuori dal repertorio ad essa consona, la voce del giovane tenore ha molto sofferto nel corso della rappresentazione, particolarmente nel duetto della “seduzione” di Gilda. Leo An è un Rigoletto interessante, lo aspettiamo alla Vendetta e non veniamo delusi, ma qualcosa in più poteva essere realizzato al suo ingresso all’inizio del secondo atto (quel terribile e mesto “Laràllalà” che solo raramente vanta l’adeguata, straziante interpretazione). In ogni caso la voce è in ottima forma, pronuncia e fraseggio curatissimi; Leo An non esegue le tradizionali puntature ma la fascia acuta non denota problemi tecnici, a fronte di una tessitura medio-grave pastosa e avvolgente. Oltre a fargli scagliare rumorosamente una scala per terra alla fine del primo atto, la regia non trova per il gobbo spunti particolarmente degni di nota. Gilda era una bellissima Mihaela Marcu, soprano di voce altrettanto bella e cristallina: l’intonazione non ha incertezze, i filati sono ben eseguiti; la proiezione della voce è sicura in ogni registro, gli acuti privi di vetrosità. Quello che, a nostro avviso, può ancora essere perfezionato è sicuramente il fraseggio, che in diverse occasioni tende ad essere un po’ piatto. Pregevole in ogni caso la sua interpretazone di Tutte le feste al tempio, capolavoro assoluto. Nel primo atto il costume bianco virginale al limite dello stereotipo rendeva la stessa interprete poco credibile: Gilda sarà pure una popolana ingenuotta, ma alla fine dell’opera si getta eroicamente sul pugnale di Sparafucile, forse è qualcosa in più di un’inerme verginella, per quanto all’inizio di una involuzione psicologica. Gianluca Breda è uno Sparafucile dalla voce interessante e dal timbro corposo. Scenicamente credibile, si dimostra più che all’altezza del ruolo. Bene anche Maddalena, una Clarissa Leonardi scenicamente sopra le righe (ma Maddalena attira gli uomini in casa per farli ammazzare dal fratello, la prendiamo così com’è) e vocalmente in forma – non pervenuta nel Quartetto, ma capita a mezzosoprani lungamente affermati, più giustificabile in un mezzosoprano da poco in carriera. Molto incinsivo il Marullo di Tommaso Barea, ben caratterizzato il Conte di Ceprano Romano Dal Zovo, precisa come sempre Alice Marini nel ruolo di Giovanna. Completano efficacemente il cast Antonello Ceron (Borsa), Francesca Micarelli (Contessa di Ceprano / Un paggio) e Dario Giorgelé (Un usciere). La direzione di Fabrizio Maria Carminati era improntata ad un encomiabile rispetto della partitura: difficilmente si sente una “vendetta” eseguita con l’adeguata cadenza tragica; ma fin dal Preludio si avverte una mano esperta e rigorosa, cui l’orchestra reagisce con forza. Particolarmente degna di nota la performance dei fiati, ottoni più che legni. Eccellente la prestazione del Coro, preparato da Vito Lombardi. Foto Ennevi per Fondazione Arena