Virgilio Sieni e Alain Platel al “Festival Aperto di Reggio Emilia” 2016

Festival Aperto di Reggio Emilia 2016, Teatro Ludovico Ariosto
“CANTICO DEI CANTICI”
coreografia e regìa Virgilio Sieni
interpreti Claudia Caldarano, Luna Cenere, Riccardo De Simone, Maurizio Giunti, Giulia Mureddu, Davide Valrosso
musiche originali eseguite dal vivo dall’autore Daniele Roccato (contrabbasso)
elemento scenico in foglie d’oro Giusto Manetti Battiloro S.p.A.
luci Mattia Bagnoli
costumi Elena Bianchini e Virgilio Sieni
produzione Festival Aperto, Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, Compagnia Virgilio Sieni
Reggio nell’Emilia, Teatro Cavallerizza, 6 ottobre 2016
“NICHT SCHLAFEN” [non dormire]
regìa Alain Platel
composizione e direzione musicale Steven Prengels
creazione e interpretazione Bérenger Bodin, Boule Mpanya, Dario Rigaglia, David Le Borgne, Elie Tass, Ido Batash, Romain Guion, Russell Tshiebua, Samir M’Kirech
drammaturgia Hildegard De Vuyst
drammaturgia musicale Jan Vandenhouwe
scene Berlinde De Bruyckere
luci Carlo Bourguignon
costumi Dorine Demuynck
Reggio nell’Emilia,  7 ottobre 2016
sieni-canticoIl terzo week-end del Festival Aperto di Reggio Emilia, per quest’ottava edizione concepito attorno al motto di “Pianeta Pensante”, accoglie due proposte coreografiche di primissimo piano, vale a dire il Cantico dei Cantici di Virgilio Sieni, presentato in prima assoluta presso il Teatro Cavallerizza, e Nicht Schlafen [non dormire] che “Les Ballets C de la B” di Alain Platel hanno portato sul palcoscenico del Teatro Ariosto dopo il debutto, in settembre, al Festival Torinodanza.
Due spettacoli certo lontani per poetica, concezione e scelte stilistiche, eppur capaci di declinare in maniera quasi complementare quell’istanza di ripensamento della qualità delle interazioni umane e di attraversamento di reti e paesaggi relazionali che sembra costituire una delle linee guida di questa edizione di Aperto. Se in un caso, quello di Cantico dei Cantici, ciò che pare offrirsi allo sguardo è quasi il ritorno all’origine del contatto con l’altro e, dunque, il nascere di ogni impulso d’amore, in Nicht Schlafen si assiste al disfacimento delirante di ogni possibilità di scambio, al conflitto inestirpabile che frantuma ogni legame umano nel suo inevitabile essere nella Storia. Uno spazio completamente vuoto e vivificato dall’unica presenza di un tavolato dorato accoglie i sei interpreti (tre uomini e tre donne) di Cantico dei Cantici circoscrivendo un’atmosfera in cui tutto sembra pulsare secondo un medesimo respiro o, meglio, accendersi del respiro altrui: dalla musica (composizioni per contrabbasso eseguite dal vivo dall’autore, Daniele Roccato), alle luci (un cerchio dorato che occupa gran parte del palcoscenico e che, ora lieve ora fulgido, pare comunque spesso sul punto di svanire), ai corpi dei protagonisti, tutti a torso nudo e vestiti solo di leggeri pantaloni grigio-azzurri.
Gli otto momenti dell’azione, tanti quanti i poemi che compongono il Cantico di Salomone cui il lavoro chiaramente si ispira, sgorgano così gli uni dagli altri senza urto né lacerazione, ma descrivendo, semmai, una dinamica costante di sparizione/apparizione sia attraverso il levarsi e l’inabissarsi della musica, sia grazie al continuo avvicendarsi degli interpreti dentro e fuori l’area illuminata della scena: i danzatori entrano ed escono ora per graduale emersione/immersione, come nelle sequenze inizialisieni-cantico-2 con le schiene che si muovono quasi fossero materia magmatica, ora tuffandosi repentinamente, come accade nei tanti momenti in cui cercano riparo sicuro nell’ombra o, al contrario, si lanciano con energia nella luce e nell’azione. Se l’ombra non è qui tenebra ma antro rigoglioso, radura che protegge e genera la vita, la luce non è raggio violento ma bagliore, lume che consente a questa umanità, erotica e fanciulla, di iniziare a conoscersi e scoprirsi. La prossimità, il gesto, la sequenza danzata divengono così l’occasione per stabilire una connessione con l’altro, sia esso rappresentato dallo spazio circostante (che si esplora e si domina spesso grazie a un movimento circolare che, nella ripetuta rotazione su bacino e ginocchia, richiama quasi l’atto di alzarsi e imparare a camminare) o, chiaramente, dagli altri esseri umani, avvicinati talvolta col tocco leggero di mani/zampe che si sfiorano, talaltra con l’intensità della presa, della posa, dell’intarsio di membra che si cercano l’un l’altra, ma sempre proiettandosi in mille direzioni.
Il linguaggio coreografico di Sieni rinuncia forse qui alle accelerazioni dinamiche e ai rizomi di movimento che spesso lo hanno connotato per aprirsi a un respiro vitale capace di riempire i corpi come una folata di vento e concretizzato, forse, nel duetto finale, con gli interpreti che, ora in piedi ora sdraiati, inarcano esageratamente la schiena ed (iper)espongono il torace in un’apertura che ha in sé il soffio, l’accoglienza, la fiducia. I sei corpi dei danzatori, come ben scrive Stefano Tomassini nelle note introduttive, “sono qui invitati a farsi un solo corpo”: quello che Cantico dei Cantici finisce allora per rivelare è una sorta di idillio carico di promesse, di speranze e di aspettative per questo gregge di uomini-fanciulli che, ulteriore, ispirata declinazione della poetica e delle utopie di Sieni, offrono la concreta visione del totale perdersi nell’altro.
Niente fiducia, se non a schegge, niente abbandono, se non per brevi istanti in Nicht Schlafen di Alain Platel. I motivi di ispirazione, in questo caso, provengono dal cuore addolorato del Primo Novecento: l’epoca travagliata evocata dalle musiche di Gustav Mahler, le cui composizioni (rielaborate da Steven Prengels e con inserti di brani tradizionali congolesi) costruiscono la trama dello spettacolo, e dai volumi dello storico e romanziere Philp Bolm, con l’attenzione per i grandi mutamenti dell’epoca e per l’impatto che rivoluzioni tecnologiche e guerre mondiali hanno avuto sulle relazioni umane, sull’impiego della violenza, sulla concezione dei ruoli di genere.
Ed è proprio un senso di lacerazione primordiale, di scontro inesausto e di morte violenta a prendere corpo nel corso dell’ora e quaranta minuti di spettacolo, innanzitutto grazie al gruppo dei tre cavalli morenti dell’artista Berlinde De Bruyckere posti sullo sfondo e alla tela beige dei tendaggi macchiati e sbrindellati che circondano il palcoscenico. In questo spazio primitivo e apocalittico al contempo, i nove eccezionali interpreti, otto uomini e una donna tutti diversissimi per struttura fisica, nazionalità e qualità di movimento, si lanciano in un’azione costruita sì sulla dialettica scontro/pacificazione, ma destinata a risolversi, fatalmente, in favore del primo termine in gioco. Sono infatti l’aggressività animalesca e la violenza cieca a dominare lo spettacolo traducendosi, ad esempio, nella lunga alain-platelsequenza in cui, scagliandosi gli uni contro altri, gli interpreti si strappano di dosso i vestiti che poi spargono, ammasso di rifiuti, su tutta l’area della scena; o, ancora, nell’accanirsi del gruppo su un esile ragazzo biondo, prima percosso, strattonato, soffocato e poi deposto sul fondo a ingrossare le fila delle carcasse animali; o, sul finale, nella massa degli interpreti che, ebbri e sardonici, si spingono in proscenio mantenendosi ben saldi l’un l’altro a suon di urti, tirate di capelli e mani che si infilzano nella carne dell’altro. A poco servono, se non a creare qualche speranza presto delusa, i passaggi in cui questo gruppo di creature, attuali e remote come il bizzarro campionario di abiti che le veste, sembrano trovare la via dell’incontro. Se da un lato non bastano le sequenze danzate all’unisono seguendo di volta in volta l’iniziativa e la creatività del singolo, dall’altro si rovescia nel livore la giocosa danza eseguita con cavigliere di campanelli sui canti congolesi di Boule Mpanya e Russell Tshiebua, così come gli accenni di tenerezza amorosa si spengono nella promiscuità più becera. È un’umanità ambigua e complessa quella di Nicht Schlafen, che maschera sì la tortura dietro lo sgambetto e il passo di pura danse d’école, ma che conserva, pur massacrata, la nostalgia di qualcosa che odora di bellezza, di compassione, di sostegno reciproci. Una compassione che vena forse anche l’imperativo del titolo, quel “non dormire” in cui, accanto al dovere morale di guardare senza filtro le proprie inconfessabili bassezze, permane rimane anche un velo di rispetto per ciò che l’uomo, si pensi allo straordinario mélange di linguaggi dell’assolo iniziale, è (era?) in grado di fare.