L’attestazione del termine belcanto è nota soprattutto in ambito ottocentesco. Attualmente la definizione più comune e di buon senso è quella di una voce enciclopedica che recita: “…arte del canto considerata soprattutto riguardo alla bellezza del suono e alla maestria tecnica e virtuosistica, indipendentemente dal suo impiego negli scopi stricto sensu espressivi o drammatici. L’espressione, diffusasi in Italia verso la metà del primo Ottocento (il suo primo uso in tal senso è forse riscontrabile del titolo delle 12 ariette da camera del Vaccaj nella cui edizione inglese compare la parola belcanto ) poco prima del 1840 e presto generalizzatasi in Germania, Francia e Inghilterra, contrappose alla deplorata decadenza del canto, vale a dire l’avvento di altri stili, più immediatamente legati all’espressione drammatica, quello stile scomparso che in modo tipico aveva mirato alla bellezza del suono e al perfetto magistero della tecnica. Nell’uso storiografico moderno il termine designa appunto quello stile di canto eminentemente operistico, che va dagli inizi dell’opera fino all’Ottocento (con la scomparsa dei castrati), i cui esponenti sono detti belcantisti e che ha avuto una funzione fondamentale nella storia dell’opera e di riflesso in quella della musica. convogliando un’amplissima tradizione stilistica e didattica, è rimasto inoltre un ideale e quasi un mito anche per il cantante moderno, in quanto repertorio fornito di precetti tecnici. Anche in Germania, in pieno periodo wagneriano sono fioriti didatti che si proclamavano fedeli ai metodi del belcanto, ( J. Stockhausen, A. Goldschmidt, F. Sicher) e continui richiami a questi metodi si fanno anche dalla didattica contemporanea. Esistono tuttavia correnti orientate in senso contrario; tipica quella guidata da G. Armin che ritiene il belcanto un fenomeno strettamente legato all’esistenza degli evirati e i cui canoni non è possibile ricostruire neanche in sede teorica”.
Il problema di attribuire a questo termine una realtà ben precisa sorge nel momento in cui, anche assegnando alla parola un’intenzione distintiva del canto artistico da qualsiasi altro tipo di canto, si dovrà anche indicare a quale tipo di espressione artistica è stato rivolto almeno al suo primo apparire. Premesso che il presente contributo non ha la pretesa dell’esaustività su un argomento così vasto e, nello stesso tempo così sottile e complesso, va detto subito che l’intento di distinguere il canto d’arte da quello spontaneo, che appartiene a qualsiasi individuo capace di produrre note attraverso i suoi organi fonatori, è stato presente fin dagli albori del melodramma. Tanto per cominciare, quando il Caccini nelle Nuove musiche parla di buon canto, usa il termine in senso oppositivo. Ciò che ci possiamo chiedere, nel constatare che questo intento oppositivo insito nel termine risulta valido anche oggi, è come sia cambiato il modo di considerare come canto d’arte l’emissione canora e quali siano i suoi canoni. Enrico Caresi nel suo saggio Tecniche Vocali del Canto d’arte tra il XVI e il XVII secolo[1] pone chiaramente il belcanto al di fuori del recitar cantando: allorché il canto diventa oggetto di esibizione teatrale e acquista requisiti di notevole estensione e di tecnicismo, oltrepassa cioè quella fase recitativa delle corti in cui si cantava con voce più sommessa e soave e in cui al primo posto era la parola e i suoi valori semantici. Il sistema impresariale in cui si troverà immerso dalla seconda metà del Seicento il melodramma impone al canto una nuova estetica; la scoperta del cosiddetto passaggio come mezzo per ampliare la gamma e il volume della voce destinata alle platee (le note acute compromettono infatti la comprensibilità del testo e la capacità di sillabare in modo intelligibile) aveva sostituito alla voce naturale, la voce come strumento, all’espressività aveva sostituito il virtuosismo.
E Caccini? a quale tipo di canto opponeva il buon canto? Il contesto in cui si trova l’espressione cacciniana è rivelatore e conferma il fatto che buon canto e bel canto non sono la stessa cosa, anzi paradossalmente possono essere intesi come contrari perché Caccini dice che “dalle voci finte (cioè non naturali) non può nascere nobiltà di buon canto”.
Il giudizio sull’osservazione cacciniana scaturisce evidentemente a posteriori poiché la concezione che noi oggi abbiamo del belcanto si avvale di un’ampia prospettiva storica che ai tempi di Caccini non sussisteva. Se commisuriamo poi l’espressione buon canto con altre analoghe odierne come ad esempio buona musica, bon ton, buone letture, buon gusto ecc…, rileviamo semplicemente il carattere distintivo di un termine che diventava appannaggio di intenditori che volevano distinguere il canto artisticamente elevato dal concetto più banale e comune di esso. Inutile dire che la cosa è valida anche per i grandi trattatisti del Settecento, Tosi e Mancini che mai nominano il sintagma bel canto nella loro opera, ricorrendo invece all’espressione buon canto allorché si tratta di distinguere tra un tipo di canto accreditato e l’altro.
(fine prima parte)
[1] In Nuova Rivista Musicale Italiana n. 3 – 1987 (Luglio-Settembre)