Milano, Teatro alla Scala – Stagione d’Opera e Balletto 2010-2011
“PAGLIACCI”
Dramma in un prologo e due atti
Parole e musica di Ruggero Leoncavallo
Nedda OKSANA DYKA
Canio JOSE’ CURA
Tonio AMBROGIO MAESTRI
Beppe/Arlecchino CELSO ALBELO
Silvio MARIO CASSI
“CAVALLERIA RUSTICANA”
Melodramma in un atto
Libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci
Tratto da Giovanni Verga
Musica di Pietro Mascagni
Santuzza LUCIANA D’INTINO
Lola GIUSEPPINA PIUNTI
Turiddu YONGHOON LEE
Alfio CLAUDIO SGURA
Mamma Lucia ELENA ZILIO
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Daniel Harding
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia Mario Martone
Scene Sergio Tramonti
CostumiUrsula Patzak
Luci Pasquale Mari
Nuova produzione del Teatro alla Scala
Milano, 1 Febbraio 2011
Tante idee, un massiccio lavoro di regia, ma anche alcune perplessità nel dittico “Pagliacci-Cavalleria rusticana” che il regista Mario Martone riporta alla Scala, dopo un’assenza di trent’anni dal teatro milanese. L’intento di Martone è chiaro: rendere il più flebile possibile, se non proprio annullare, la distanza che separa il pubblico dalla scena e creare un continuum tra artisti e spettatori, tra l’azione rappresentata e l’emozione percepita. Il regista napoletano vuole affermare che lo spettacolo inscenato sia vita vera, rendendo tale assioma tramite la sua particolare visione delle due opere capisaldi del Verismo musicale. Martone, estende, allunga, stira il palcoscenico, agganciandolo alla platea, al fine di raggiungere il suo scopo. Nei “Pagliacci”, gli artisti si muovono, corrono, saltano su e giù dal palco, trascinando la storia in mezzo al pubblico. L’ambientazione è contemporanea: uno squallido spazio suburbano, adiacente ad un cavalcavia, sotto il quale alcune prostitute attendono il loro avventore. Canio è un saltimbanco, un attore, ma anche il probabile protettore delle signorine di cui si diceva, come il suo abbigliamento suggerisce. Nedda, una giovane donna il cui desiderio di autonomia e di ribellione nei confronti dell’universo maschilista, la porta ad assumere atteggiamenti ruvidi ed incontrollati. Tonio, Silvio e Beppe, i cui interpreti dimostrano di possedere un fisique-du-rol formidabile, completano un cast che, dal punto di vista visivo, aderisce perfettamente allo storyboard che Martone ha in mente. Il coro, infine, con la sua funzione di commento e coscienza sociale, viene rappresentato come un’estensione del pubblico stesso: signore e signori vestiti di tutto punto che assistono attoniti al duplice delitto conclusivo, consumato ai piedi degli spettatori di prima fila, involontari fruitori di un finale d’opera in 3D. José Cura, dopo una lunga frequentazione del personaggio, dal vivo come in disco, realizza un Canio abastanza espressivo e dotato di un buon appeal scenico. Purtroppo, vocalmente si è costretti ad udire tutta una serie di suoni bercianti, acuti che confinano con l’ululato, realizzati con l’ausilio di una metavocale indefinibile, il cui scopo è suggerire una parvenza di controllo sonoro. Peraltro, dell’antica brunitura che permeava il registo centrale del tenore all’epoca in cui furoreggiava come Otello, non rimane alcuna traccia, il tutto sostituito da un’emissione prosciugata e nasaleggiante. Non si pretende di certo che questo Canio debba esprimersi con una linea di canto da aura amorosa mozartiana, ma risulta difficilmente tollerabile il dover ascoltare tanta libertà in termini di durata delle note, con accenti spostati alla rinfusa e con un fraseggio interamente buttato alle ortiche. Molto ben recitati e cantati sia il Beppe di Celso Albelo (che, per inciso, esegue una serenata da manuale) che il Silvio di Mario Cassi che esibisce toni da vero innamorato, espressi con una schietta vocalità da baritono brillante. Stupendo, poi, il canto di Ambrogio Maestri, il quale, indossando i panni di Tonio, inonda il teatro con la sua voce ampia, sonora e morbidissima, capace di bei legati e con una proiezione del registro acuto notevolissima. Oksana Dyka, come Nedda, delude non poco. Innanzitutto, siamo alle solite: il soprano ha voce di timbro discreto, da lirico puro, ma la cantante si ostina a sfoggiare risonanze esagerate per il suo mezzo, con il risultato che l’emissione risulta incerta, svuotata nelle note gravi (e sovente rauca negli incisi che sconfinano nel parlato durante la commedia) ed aspra in quelle centrali, mentre gli acuti mancano di uniformità (proprio sgradevole l’insistenza con cui la Dyka cerca di riprendere il brutto la che conclude la ballatella, tenendolo ben oltre l’ultima battuta dell’orchestra). Come attrice poi, al di là del bel volto, non pare particolarmente dotata o, comunque, sembra calcare sul pedale della volgarità cercando di ottenere, invano, l’effetto di una donna che afferma con forza la propria libertà di amare. “Cavalleria rusticana” si muove su di un binario diametralmente opposto, pur condividendo le stesse finalità. Quanto Pagliacci sfrutta la tridimensionalità dello spazio teatrale ed adotta quale perno di sviluppo dell’azione il movimento, tanto Cavalleria è rivestita di un immobilismo quasi sacrale. Qui tutto è statico, suddiviso in geometrie perfette e dense di significati. Totalmente bandita è la cifra folkloristica della sicilianità, che pure la musica sa evocare prepotentemente, intrisa com’è dei profumi del Sud. Colpisce il constatare che l’unico elemento scenografico di certa elaborazione presente nello spettacolo, sia il bordello che compare all’inizio dell’opera e che sottolinea una certa ossessione nei confronti della prostituzione (i rimandi al momento politico del Paese si sprecano). Di grande efficacia è la disposizione del coro all’inizio: ciascuno entra in scena recando la propria seggiola e, quando anche l’ultimo artista del coro prende posto, Martone pone il pubblico di fronte ad un enorme specchio virtuale, a voler siglare la sua cifra interpretativa. Impressionante l’ingresso di Mamma Lucia (“luogo anch’essa” per dirla con il regista) sottolineato dallo schianto sonoro dei contrabbassi che, rubati al dolore ed alla vergogna di Santuzza, accompagnano il lento incedere di questa anziana vestale. Poi il teatro diviene chiesa. Nella metamorfosi dello spazio scenico, si consuma il dramma di Santuzza. Relegata ai margini della società (metaforicamente e fisicamente) Santuzza si aggira incapace di stabilire qualsiasi contatto con gli altri, raccogliendo unicamente sguardi che denotano indifferenza e sospetto. In questo suo esilio fisico e spirituale, le pudiche carezze date al volto di Mamma Lucia durante la narrazione delle sue sciagure, costituiscono il solo tentativo di interazione di una donna emarginata. Di contro a momenti di grande teatro, ce ne sono altri dagli esiti interlocutori. Nella fattispecie entrambi i duetti, prima con Turiddu e poi con Alfio, denotano qualche fissità scenica di troppo, complice una “malapasqua” vocalmente dimessa e distaccata ed un Alfio, il cui nobile riserbo, nonostante un canto lodevole, abbassa parecchio la temperatura di brani che richiederebbero tutt’altra resa. Luciana D’Intino è una grande professionista e la sua Santuzza si esprime con un canto controllatissimo che riesce a dissimulare i punti deboli dell’emissione. Nonostante una prima ottava poco sonora e rimpicciolita rispetto agli esordi della cantante, il settore acuto e, ancor più, quello grave della voce sono ancora una miniera di suoni emozionanti (il suo “sono scomunicata” prodotto con straordinarie vibrazioni di petto fa sobbalzare sulla poltrona). L’interpretazione è tutta giocata sul versante dolente del personaggio, tralasciando, anche nei momenti più infuocati della partitura, gli accenti d’ira e di oltraggiata dignità di cui, in tutta franchezza, si avverte la mancanza. Il tenore coreano Yonghoon Lee si sforza di apparire quanto più guappo possibile nell’atteggiamento, ma è il suo modo di accentare e scandire le frasi che con la scrittura di Turiddu c’entra poco o punto. Ciononostante ha voce di un certo peso ed un registro acuto capace di note assai ben assestate. Claudio Sgura nei panni di Alfio emana un discreto carisma e, come già accennato, il cantante è notevole, tuttavia, ad eccezione del suo sguardo torvo, non lascia un segno indelebile nell’ascoltatore. Grande attrice, Elena Zilio, la cui improbabile vocalità granguignolesca pare fondersi molto bene con la ieratica presenza di questa “Mamma Universale”. La Lola di Giuseppina Piunti rappresenta una folata d’aria fresca in tale contesto ed, oltre ad essere cantata benissimo, catalizza l’attenzione del pubblico sin dalla sua entrata in scena, grazie ad un sex-appeal naturale e ad una recitazione garbata e misurata. Il Coro del Teatro alla Scala offre, ancora una volta, una prova di tutto rispetto, anche se inficiata da qualche attacco non perfettamente a fuoco e da un’amalgama di suono meno rifinita del solito. Il maestro concertatore Daniel Harding dimostra di aver brillantemente ripensato e rivisto alcune scelte di tempi e sonorità rispetto a quanto proposto durante la prima (trasmessa da Rai 5), recuperando con successo l’aspetto passionale e drammatico tanto connaturato ai titoli in questione. Foto Brescia e Amisano, Teatro alla Scala