Milano, Teatro alla Scala – Stagione d’Opera e Balletto 2010-2011
“TURANDOT”
Opera in tre atti e cinque quadri su libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
Musica di Giacomo PucciniTurandot MARIA GULEGHINA
Timur MARCO SPOTTI
Calaf MARCO BERTI
Liù EKATERINA SCHERBACHENKO
Ping ANGELO VECCIA
Pang LUCA CASALIN
Pong CARLO BOSI
Mandarino ERNESTO PANARIELLO
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Valery Gergiev
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia Giorgio Barberio Corsetti
Scene e costumi Giorgio Barberio Corsetti e Cristian Taraborrelli
Coreografie Ricky Sim
Luci Fabrice Kebour
Collaborazione video Pierrick Sorin
Milano, 13 Aprile 2011
Lo spettacolo ideato da Giorgio Barberio Corsetti per questa nuova Turandot scaligera possiede un discreto fascino visivo di stampo tradizionale, inquinato da alcune soluzioni tecnologiche che incespicano nel tentativo di fondersi con il contesto generale. Piacevoli sono sia le scenografie (una Pechino fatta di baracche che emerge e risprofonda nel palcoscenico, silenziosa ed inesorabile), sia i costumi all’insegna della misura e molto distanti dall’ipertrofia in cinemascope tanto cara a ben noti registi. Efficace e non tediosa la presenza di mimi ed acrobati (abilissimi, questi ultimi, nel catturare fugacemente l’attenzione esclusiva dello spettatore con il loro calarsi a testa in giù e sospesi nel vuoto), così come l’idea di Turandot che appare costantemente protetta e preservata nella sua virginea femminilità da uno stuolo di donne-samurai. Molto belli i cromatismi che caratterizzano l’ingresso della principessa ed i successivi enigmi, dove i rossi e gli arancioni più caldi paiono trascolorare nei blu e nei verdi più lividi, componendo così sulla scena uno splendido acquerello. Di contro, l’esigenza di sperimentare di Barberio Corsetti, conduce il regista all’uso di videoproiezioni dagli esiti incerti. Sul fondale, ad esempio, la “bianca luna” che si tramuta nel faccione di una Turandot di volta in volta perentoria, addormentata oppure compiaciuta, sortisce una certa ilarità, mentre l’utilizzo del chroma key durante il racconto di Ping, Pong e Pang incuriosisce e diverte, pur trattandosi di un artificio più adatto al mezzo televisivo che al teatro d’opera. Purtroppo, musicalmente, si scende di livello. E non di poco. Valery Gergiev opta per un suono turgido e marziale, dove timpani e grancassa la fan da padroni, mortificando gli archi nei passi più sinfonici. L’aplomb ritmico, peraltro, lascia molto a desiderare, con vistose incomprensioni soprattutto tra buca e coro. I momenti migliori di questa direzione si ravvisano nell’episodio delle tre maschere e nell’atmosfera rarefatta e quasi ai limiti dell’evanescenza che avvolge il personaggio di Liù. Maria Guleghina (Turandot) esibisce circa la metà del volume che la rese celebre ai tempi del Macbeth di Vick/Muti. Considerato che di tutte le carte vincenti dell’organizzazione vocale di un cantante, il volume sia sempre stata la sola in possesso del soprano ucraino, la sua situazione, oggi, non è certo rosea. Il timbro mostra un importante appannamento nel registro centrale, appannamento che diviene afonia nel registro grave. Le note medio-acute sono ancora decorose, mentre il settore acuto della voce, laddove lanciato un poco allo sbaraglio, le riesce più intonato rispetto agli esordi (nella fattispecie, il do della reggia è l’atout della sua performance). Altrove la Guleghina si sforza di realizzare qualche pianissimo e di cimentarsi in qualche dinamica, ma la tecnica mendace, allora come oggi, non le permette un tale lusso. Anche volendo sorvolare sull’imbarazzante vuoto di memoria durante gli enigmi, sulla perfidia della dizione o sui molti si naturali aperti e fibrosi, non è proprio possibile concederle grazia alcuna. Il Calaf di Marco Berti è caratterizzato da un canto stentoreo e stentato, privo di legato, realizzato con un’emissione poco uniforme e scarsa musicalità. Ha, dalla sua, una dizione chiara ed un timbro sufficientemente accattivante, in aggiunta ad un volume più che discreto. Il tenore compita il “Nessun dorma” con notevole prudenza (il che non stupisce più di tanto), ciononostante le stonature sono tante e tali da far temere il peggio rispetto ad una possibile contestazione da parte del pubblico, poi non verficatasi. Timur è interpretato dal basso Marco Spotti, che di basso ha poco o punto. Male assortite le voci di Angelo Veccia (Ping), Carlo Bosi (Pong) e Luca Casalin (Pang). Veccia si esprime con un canto più raccolto e sfumato, ma anche più espressivo rispetto agli altri due che, invece, tendono a strafare sia vocalmente che interpretativamente. Puntuale, come sempre, la professionalità di Ernesto Panariello nei panni del Mandarino che, una volta tanto, non cerca di somigliare all’orco delle fiabe. Ekaterina Scherbachenko finisce per essere la migliore in campo: dotata di bella pasta vocale, s’impegna a fondo (ed in tal senso è l’unica fra i protagonisti) nel tratteggiare un personaggio credibile, rispettando molte delle dinamiche prescritte e donando a Liù una qualche vibrazione emotiva. Il Coro del Teatro alla Scala, come si accennava sopra, pena molto rispetto al gesto disinteressato di Gergiev ed, a causa di dislivelli più o meno evidenti, non viene messo in condizione di offrire una prestazione all’altezza della meritata fama. Fotografie di Marco Brescia & Rudy Amisano