Palermo, Teatro di Verdura:”Turandot”

Palermo, Teatro di Verdura, Stagione Lirica 2011
“TURANDOT”
Dramma lirico in tre atti e cinque quadri su libretto
di Giuseppe Adami e Renato Simoni
dalla fiaba teatrale omonima di Carlo Gozzi
Musica di Giacomo Puccini
Turandot GIOVANNA CASOLLA
Timur RAMAZ CHIKVILADZE
Calaf WALTER FRACCARO
Altoum NICOLA PAMIO
Liù RACHELE STANISCI
Ping FABIO PREVIATI
Pang IORIO ZENNARO
Pong MASSIMILIANO CHIAROLLA
Mandarino ALESSANDRO CALAMAI
Il principe di Persia PIETRO LUPPINA
Orchestra, Coro, Corpo di ballo e Coro di voci bianche del Teatro Massimo
Direttore Marcello Mottadelli
Maestro del Coro Andrea Faidutti
Maestro del Coro di voci bianche Salvatore Punturo
Regia Willy Landin
Scene Angelo Canu
Costumi Elena Cicorella
Coreografia Luciano Cannito
Luci Claudio Schmid
Palermo, 12 luglio 2011

Dedicata alla memoria di Roland Petit, la prima recita di Turandot ha rinnovato il consueto appuntamento del pubblico palermitano con la sede estiva del Teatro di Verdura. Una nuova produzione del Teatro Massimo, dove l’ultima edizione dell’opera pucciniana risale a tempi abbastanza recenti, precisamente al febbraio del 2006, quando fu proposta nello storico allestimento del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, con la meravigliosa regia di Zhang Yimou. Allora Turandot mancava a Palermo da alcuni anni, e altrettanti temevamo che potessero passare prima di rivederla. Invece, complice l’adattabilità di quest’opera agli spazi all’aperto, la Fondazione ha consolidato un legame che ormai speriamo più all’insegna della fedeltà (come per altri rapporti pucciniani) che del volubile tradimento. L’allestimento all’aperto comporta però alcune difficoltà, come nel caso dell’amplificazione, che in questo caso ha lasciato molto a desiderare; persino l’orchestra, notoriamente tornita e rutilante, in taluni passaggi sembrava dimessa e inevitabilmente disturbata dagli effetti di intermittenza. Alcune sfumature, determinati dettagli che sembrano trasfigurarsi già visivamente nella raffinata partitura, sono quindi andati perduti, nonostante lo sforzo del direttore d’orchestra, Marcello Mottadelli, che ha conferito all’esecuzione slancio vitale e piglio giovanile, ammorbiditi da un tocco estremamente attento alle mutazioni di intensità e atmosfera.
Dal canto loro sia il regista Willy Landin che lo scenografo e la costumista – rispettivamente Angelo Canu ed Elena Cicorella – hanno fronteggiato con eccessiva disinvoltura le non poche complessità di un lavoro il cui universo ci appare autenticamente fiabesco, proprio in virtù di quegli aspetti macabri e crudeli che normalmente consideriamo incompatibili con il mondo delle favole (basterebbe invece rileggere le versioni originali dei Grimm o di Andersen per renderci conto di quanto ciò sia errato).
La compresenza di elementi eterogenei e spesso opposti costituisce l’essenza di un’opera che proprio a questo deve il suo fascino, alla capacità di appartenere sia alla tradizione che alla modernità, di riprendere da entrambe gli aspetti più rischiosi, tralasciandone però le barriere protettive, gli elementi consolatori. A nessuno di quei due mondi Turandot può rinunciare, poiché ne andrebbe della sua ragion d’essere. Qui invece la regia ha puntato tutto sulla tradizione, inibendo il moderno e confezionando uno spettacolo nel complesso fedele al Puccini consuetudinario, ma estraneo al perverso gioco di disponibilità/inaccessibilità che quest’opera dovrebbe attuare, venendo incontro alla pulsione scopica dello spettatore e al contempo frustrandola con ritrosa voluttà.
Almeno però le principali caratteristiche della “tradizione” sono state rispettate in modo corretto, in un allestimento elegante ma mai eccessivo, a tratti severo e minimalista, come alla fine del primo Atto, dove il vuoto del palcoscenico sembra essere la personificazione del “Niente” nel quale Calaf vorrebbe annullarsi. La Pechino che ci viene presentata rimane comunque una città di intarsi, evocata simbolicamente dagli ideogrammi di cui è intagliato il fondale in lontananza. Al centro della scena, nel solco della consuetudine, è il gong a costituire il polo di attrazione, sia per il pubblico che per i protagonisti; non a caso nel resto dell’opera l’oggetto permane nella percezione oculare, metaforicamente ampliato dalla struttura ovale di colore rosso in cui si collocano sia Turandot che l’imperatore Altoum. Cromaticamente è proprio il rosso a dominare, accanto al bianco e all’oro, sfumature amalgamate e bene enfatizzate dalle sapienti luci di Claudio Schmid. Numerosi gli apporti danzati, ideati dal coreografo Luciano Cannito e affidati ai ballerini del Teatro Massimo; quest’ultimi però in non poche occasioni ci sono sembrati un po’ impacciati e non coordinati nelle movenze, a causa forse degli spazi ristretti e poco agevoli per la presenza della scalinata. Efficace invece la sfilata incrociata dei fanciulli con le lanterne, in corrispondenza del loro primo intervento (“Là sui monti dell’est”) preceduto dalla danza delle ancelle, avvolte come nuvole in vaporose organze, nel corso della teofania lunare (“Perché tarda la luna”).
Il fascino di Turandot risiede anche in questa contrapposizione fra passaggi di delicata dolcezza e momenti di estrema crudeltà, che talvolta feriscono come lame. Stridente è innanzitutto la vocalità della protagonista, in questo caso il soprano Giovanna Casolla, che dalla sua ha l’esperienza del ruolo (interpretato in moltissime occasioni, anche nella famosa edizione proposta nella Città Proibita nel 1998), ma che di Turandot finisce per esaltare l’aspetto isterico e schizofrenico, senza dare adeguato spazio alla componente passionale e di fragilità femminile. Sempre sicura anche negli acuti più impervi, nel fraseggio la Casolla è talvolta oscillante e in alcuni punti produce inflessioni che le fanno perdere autorità, con effetti leggermente sgradevoli (come accade durante la scena degli enigmi). Nel complesso l’interpretazione è comunque adeguata e ci offre una principessa gelida e distante, angosciosamente bloccata nelle sue ossessioni. Brilla ben poco, al contrario, il Calaf di Walter Fraccaro: il timbro del tenore è opaco, poco squillante, quasi sempre impreciso nei legati. Pure gli acuti sono fastidiosi, tanto da essere facilmente superato dal Principe di Persia (Pietro Luppina) di cui udiamo la voce da dietro le quinte. In “Nessun dorma” il tenore veneto riesce a strappare gli applausi più per abitudine che per reale convinzione; peccato però, visto che il temperamento ci è sembrato tutto sommato convincente e la presenza scenica sostenuta da un controllo corporeo insieme austero ed impetuoso, conforme quindi al profilo del personaggio.
Alla luce del polistilismo dell’opera, essenziale e assolutamente non secondaria la costruzione delle tre maschere, qui interpretate da Fabio Previati (baritono) e dai tenori Iorio Zennaro e Massimiliano Chiarolla. Nonostante le difficoltà degli incastri ritmici, i tre cantanti ne escono fuori con grande maestria, offrendo momenti di efficace drammaturgia che tengono ben desta l’attenzione dello spettatore. In questo caso è anche la concezione del regista che viene in aiuto, nell’enfatizzare le movenze ridicole e marionettistiche dei tre personaggi, che rispecchiano così la concezione bergsoniana del comico come “meccanico applicato sul vivente”. Sullo stesso piano di bravura il basso Ramaz Chikviladze, un Timur dagli accenti commoventi e insieme profondi, evidenti soprattutto nell’intervento accorato subito dopo la morte di Liù (“Liù! Liù! Sorgi!”). Buono Alessandro Calamai nel ruolo del Mandarino (una figura solitamente trascurata, ma che comunque serve come tutti al giusto equilibrio dell’azione drammaturgica) mentre abbastanza distaccato Nicola Pamio (Altoum), la cui staticità risulta appropriata sul piano fisico, ma fuori luogo su quello vocale.
Infine la Liù di Rachele Stanisci, già apprezzata in altre produzioni del teatro palermitano (La Bohème di Puccini e Don Quichotte di Massenet). Il soprano ha voce nitida e morbida, piuttosto esile ma assai accorta nelle sfumature e nell’esecuzione dei pianissimo. Teatralmente però non riesce a suscitare quella partecipazione emotiva che normalmente ci aspetteremmo. Questo dettaglio va a toccare il nucleo dell’opera: Liù infatti da molti – e probabilmente non a torto – viene considerata la vera protagonista di Turandot. Non sappiamo se ciò sia vero, ma indubbiamente è il suo sacrificio a determinare il cambiamento degli altri personaggi, la liberazione dal meccanismo ossessivo che li imprigiona: Turandot si apre all’amore e si affranca dal pensiero dell’ava violentata; Calaf dona il segreto del proprio nome (e quindi se stesso) alla principessa di gelo; persino i tre dignitari, per la prima volta, di fronte alla morte non sogghignano. Nell’efficace immagine che il Teatro Massimo ha scelto come locandina compare una fanciulla che terrorizzata si tura le orecchie, mentre dietro incombe l’ombra di un drago. I suoni, le voci che la giovane non vuole sentire sono suoni di morte, urla di terrore, richiami di spettri. La piccola Liù non regge più, ed è per questo che decide di morire. È a lei che dobbiamo la maggior parte dei momenti elegiaci e di pathos musicale. Questi momenti ella li offre a Calaf in modo incondizionato, ma al momento decisivo – la dichiarazione di “Tanto amore segreto, inconfessato…” che la Stanisci porta avanti con perfetto dominio delle qualità vocali – il principe ignoto non reagisce con altrettanto ardore. Si spezza così l’ultimo baluardo della convenzione operistica: non è colei che veramente ama ad essere riamata, bensì colei che incrudelisce, che tutto vuole e nulla dona. Non più teatro, né melodramma, ma una fiaba che attraverso la propria trasfigurazione diventa vita.
Foto Franco Lannino – Teatro Massimo di Palermo