Milano, Teatro alla Scala: “La donna del lago”

Milano, Teatro alla Scala – Stagione d’Opera e Balletto 2010/2011
“LA DONNA DEL LAGO”
Melodramma in due atti su libretto di Leone Andrea Tottola
Musica di Gioachino Rossini
Giacomo V JUAN DIEGO FLOREZ
Duglas D’Angus BALINT SZABO
Rodrigo di Dhu MICHAEL SPYRES
Elena JOYCE DIDONATO
Malcom Groeme DANIELA BARCELLONA
Albina JOSE MARIA LO MONACO
Serano JAEHEUI KWON
Bertram JIHAN SHIN
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Roberto Abbado
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia Lluis Pasqual (ripresa da Leo Castaldi)
Scene Ezio Frigerio
Costumi Franca Squarciapino
Luci Marco Filibeck
In coproduzione con Opera National de Paris e Royal Opera House di Londra
Milano, 29 Ottobre 2011

Opera-monumento del Belcanto, “La donna del lago” di Gioachino Rossini rivive sul palcoscenico del Teatro alla Scala, a distanza di quasi vent’anni dall’ultimo allestimento, grazie all’apporto di un cast stellare sulla carta, ma che, nella realtà dei fatti, annovera un solo autentico virtuoso del canto rossiniano in coppia con un’altra fuoriclasse di questo repertorio. Ovviamente, ci si riferisce ai due protagonisti assoluti di questo capolavoro canoro, Giacomo V ed Elena, ossia la donna del lago, rispettivamente impersonati da Juan Diego Florez e Joyce DiDonato.
Il tenore peruviano, stella incontrastata nei teatri, così come nelle sale d’incisione, fa valere le ragioni del suo successo tramite un prestazione che, nel panorama lirico odierno, non conosce quasi rivali. La parte di Giacomo V, modellata da Rossini sulle caratteristiche vocali del tenore contraltino Giovanni David, presenta insidie canore di ogni sorta che, a cominciare dall’estensione richiesta in acuto ed alla difficoltà delle fiorettature, costituisce un temibile banco di prova per le capacità tecniche del cantante. Florez, dotato in natura di una voce non particolarmente seducente, affronta la parte con una preparazione tecnica e musicale tali da consentirgli, non solo di non soccombere alla pestifera scrittura vocale del personaggio, ma di servirsene come trampolino di lancio per la propria bravura. Bravura che non è mai sfacciata o fine a se stessa, ma costantemente al servizio della musica. La cesellatura di ogni frase, peraltro accompagnata da una dizione ovunque chiarissima, è ragguardevole; lo slancio con cui si cimenta nei passaggi di agilità, gli acuti ed i sovracuti (fino al re naturale, in aggiunta ai molti do), il legato dei cantabili, tutto scorre con sicurezza, nel più totale controllo da parte dell’artista. L’apertura del secondo atto, con l’aria “Oh fiamma soave”, concentrato di quanto sopra detto, costituisce il climax della serata e viene salutata da un boato di applausi. Di contro si rileva una scarsità nelle escursioni dinamiche ed un’evidente carenza di volume quando il canto dev’essere mantenuto sul forte, ma si tratta di limiti nei confronti dei quali, una voce dal peso specifico ridotto come questa, poco può.
Joyce DiDonato, che ha costruito la sua carriera sui ruoli da mezzosoprano rossiniano e sul Barocco, apre bocca ed esibisce un timbro quantomai sopranile, argenteo e luminoso. L’ottava migliore di tutta l’estensione è proprio quella acuta (ben pochi mezzosoprani potrebbero attaccare tanto dolcemente i sol dei “mattutini albori”), mentre nei centri la voce tende a svuotarsi ed a perdere sonorità. Viene di fatto da pensare che l'”amabil diva” avrebbe potuto giovarsi di una maggiore frequentazione del repertorio sopranile, anche alla luce di alcune tensioni e durezze che, qua e là, fanno capolino nell’emissione, quasi a testimoniare una precoce stanchezza vocale. Se, durante l’opera, non tutte le intenzioni musicali ed interpretative risultano efficaci, complici una dizione perfettibile ed alcune vocalizzazioni non propriamente a fuoco, il rondò conclusivo giunge a sollevare protagonista e pubblico in una catarsi canora. E’ proprio nel “Tanti affetti” che la DiDonato dispiega finalmente tutto il suo armamentario di virtuosa e lo fa con tale disinvolta nonchalance da scaldare gli animi in sala. Le scale ascendenti e discendenti, i salti d’ottava ed alcune delle variazioni proposte (le altre sono risultate un poco insistite ed al limite della riscrittura), concorrono benissimo a disegnare l’estasi in cui versa la sua Elena. Se si aggiunge una recitazione del tutto convincente, non si fatica ad immaginare che il pubblico le abbia tributato un’ovazione a scena aperta, ancor prima della conclusione orchestrale.
Daniela Barcellona (Malcom), entra in scena e subito il suo appeal non manca di sortire il giusto effetto. Il recitativo “Mura felici” possiede quel tratto aulico, che è cifra distintiva del suo personaggio e viene realizzato con voce ampia e vellutata. Molto bene anche l’aria che segue, ad eccezione di alcune frasi cantate con un piano perfetto per un disco, ma insufficiente per l’ascolto dal vivo in teatro (fastidioso vezzo a cui la cantante indulgerà altre volte nel corso dell’opera). La cabaletta “Oh quante lagrime”, invece, vede il mezzosoprano triestino in qualche difficoltà, soprattutto nelle variazioni della ripresa, le quali, nel loro essere volte a valorizzare il registro acuto, non fanno altro che evidenziare una serie di suoni chiocci e sbiancati. Altrove, la cantante appare sottotono, come nel duetto con Elena, dove, peraltro, i due timbri tendono ad uniformarsi in alcuni passaggi, causando una spiacevole monotonia. Probabilmente, se la Barcellona si fosse attenuta alla scrittura originale o avesse optato per modifiche atte a massimizzare la fascia grave dell’estensione, le cose sarebbero andate meglio, risparmiandole, magari, le isolate contestazioni piovute al termine di entrambe le arie; ciononostante la sua performance ha mietuto numerosi consensi.
Michael Spyres nei panni di Rodrigo, altro ruolo killer ideato da Rossini per il famoso baritenore Andrea Nozzari, risulta persino sfrontato nel prodursi in un canto acrobatico che è sì spericolato, ma anche molto incerto quanto a tenuta e discutibile nella resa complessiva. Questo ragazzone del Massachusetts si diverte con spavalderia nel costringere il suo strumento ad improbabili salti di quasi tre ottave, sia in salita che in discesa, nell’adrenalinico “Io volo”, dove il do acuto è piuttosto aspro, mentre il suono subbasso è nulla più che una fantanota. Per il resto, il tenore vanta una certa ampiezza di cavata laddove la tessitura rimane centrale ed è capace di discrete agilità, grazie ad un sapiente uso dell’accentazione. Ad ogni modo, i suoi interventi, benché vocalmente approssimativi, hanno il pregio di vivacizzare l’andamento dello spettacolo.
Balint Szabo, come Duglas, ha una piacevole voce di basso, non molto sonora ed invero corta nel registro grave, ma canta correttamente quanto gli compete.
Senza infamia e senza lode le parti di fianco e molto poco omogeneo nel suono il Coro, solitamente esempio di coesione e precisione.
Ottima la prova di Roberto Abbado (assecondato da un’orchestra particolarmente “in serata”), che sa come ottenere un suono compatto e vibrante, ma anche belle dinamiche e sfumature nei momenti topici delle arie.
Della produzione firmata da Lluis Pasqual, Ezio Frigerio e Franca Squarciapino, poco si può dire, se non che la scena (un colonnato in forma di semicerchio con doppia balconata) sia statica e noiosa e che i costumi siano di ottima fattura per quanto concerne i protagonisti agghindati in stile epico. Quanto all’idea di affidare agli artisti del coro la funzione di alter-ego del pubblico, vestendoli in smoking ed abito da sera, occorre constatarne l’assoluta inefficienza. Foto Teatro alla Scala

One Comment

  1. Pierluigi

    Ho visto la prima recita del 26/10, quindi con Osborn nel ruolo di Rodrigo, ed è stato un trionfo quale da anni non avevo memoria. E ben a ragione! Non solo le voci sono quanto di meglio si possa desiderare in Rossini (cosa sono quei distinguo sulla Barcellona e persino su Florez, ma stiamo scherzando?), ma soprattutto, la direzione di Abbado è stata di assoluta grandezza: ha dato all’opera un’unitarietà drammatica invidiabile accentuandone l’aspetto (pre) roomantico e fors’anche (pre)risorgimentale, senza mai però forzare la scrittura rossiniana. Quanto al Coro, la prima sera è stato inappuntabile. Infine, La donna del Lago è apparsa davvero per quello strepitoso capolavoro che è, senza il quale non si immaginerebbero una Lucia, I Puritani etc. Quanto alla regia era incolore (elegante comunque) ma, visto il livello musicale, per una volta va bene anche così!

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