Milano, Teatro alla Scala – Stagione d’Opera e Balletto 2011-2012
“TOSCA”
Melodramma in tre atti su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica,
dal dramma omonimo di Victorien Sardou.
Musica di Giacomo Puccini
Tosca MARTINA SERAFIN
Cavaradossi MARCELO ALVAREZ
Scarpia GEORGE GAGNIDZE
Angelotti DEYAN VATCHKOV
Spoletta MASSIMILIANO CHIAROLLA
Il sagrestano ALESSANDRO PALIAGA
Sciarrone DAVIDE PELISSERO
Un carceriere ERNESTO PANARIELLO
Un pastore BARBARA MASSARO
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Nicola Luisotti
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia Luc Bondy (ripresa da Lorenza Cantini)
Scene Richard Peduzzi
Costumi Milena Canonero
Luci Michael Bauer
Milano, 6 Maggio 2012
In occasione del debutto scaligero di questa coproduzione di “Tosca” firmata da Luc Bondy nel Febbraio 2011, avevamo così espresso la nostra opinione.
Occorre subito sgombrare il campo da dubbi eventuali: lo spettacolo era e resta intrinsecamente brutto, nonostante siano stati apportati alcuni cambiamenti poco significativi alla regia (ripresa da Lorenza Cantini) così come alle scene di Richard Peduzzi.
Ad ogni modo, la ripresa di quest’anno si evidenzia soprattutto come la “Tosca” di Nicola Luisotti. Il giovane e capacissimo direttore d’orchestra si produce in una lettura del capolavoro pucciniano dove l’amore, la passione, il coraggio, la sofferenza e la malvagità si mostrano gonfiati all’ennesima potenza, attraverso un suono poderoso, che trasla le vicissitudini dei protagonisti in una dimensione eroica, anzi, supereroica. Un esempio fra tutti: gli accordi che fanno da sfondo all’ingresso di Scarpia al primo atto rasentano lo schianto sonoro, quasi introducessero l’Anticristo in persona. In tutti i momenti prettamente sinfonici, il fascino di questa concertazione, caratterizzata da scelte agogiche sempre azzeccate, è innegabile (l’Orchestra del Teatro alla Scala ha suonato meravigliosamente), ma, ahimè, Luisotti dimostra di aver quasi obliato l’equilibrio ed i compromessi inevitabili ai fini di una riuscita ottimale in una recita dal vivo, ponendo i cantanti in una situazione di disagio, più o meno evidente, a seconda dei casi.
Martina Serafin ha voce importante, sonora nei centri e particolarmente sferzante in acuto. Il timbro mostra qualche segno di usura in alto, anche a causa del repertorio spinto che la cantante austriaca frequenta ormai da tempo, ma si mantiene abbastanza piacevole in tutta la gamma. Inoltre, la sua Tosca si esprime con una dizione pressoché perfetta (le consonanti schioccano non male) ed attraverso un fraseggio interessante (in tal senso, il duetto d’amore al primo atto le riesce assai bene). Purtroppo la volontà di non soccombere all’impressionante densità orchestrale, porta il soprano ad un’emissione costantemente sopra le righe, spasmodica in alcuni momenti (tutta la parte che conduce al do della “lama”, nel terzo atto, risulta gridacchiata e stridente) e comunque poco o per nulla incline a colori e sfumature. Ad ulteriore riprova di quanto detto, basterebbe analizzare il “Vissi d’arte” ascoltato qui: spinto dalla prima all’ultima nota e talmente altisonante da rasentare il comico involontario, quasi si trattasse della proclamazione della Magna Charta, piuttosto che di un’intima preghiera (ed è un peccato, considerate le sorprendenti smorzature che il direttore ottiene dall’orchestra). In altro contesto, questa della Serafin avrebbe potuto essere una Tosca di riferimento nel panorama odierno, anche grazie al buon dominio dello spazio scenico ed alla piacevolezza della figura.
Marcelo Alvarez, a giudicare dagli applausi conclusivi, è parso il più apprezzato dal pubblico presente in sala. In effetti, il suo Cavaradossi, ampiamente rodato sulla scena internazionale, si distingue in virtù di una vocalità schietta e di un’emissione onesta, indenne da tutti quei trucchetti che i divi discografici del momento utilizzano per camuffare mende tecniche, anche vistose. Per di più, il tenore argentino non rinuncia a dinamiche e colori, pagando però lo scotto di un affaticamento vocale notevole durante lo svolgimento dell’opera. Se la prima aria convince senza riserve, “E lucevan le stelle” lo coglie stanco ed indurito nell’emissione (in particolare, il registro acuto viene risolto con suoni slegati ed un po’ troppo aperti). Per il resto, la sua performance è caratterizzata da una recitazione piuttosto didascalica, ma senz’altro comunicativa.
Lo Scarpia del baritono georgiano George Gagnidze rientra nella tradizione del cattivo affetto da birignao acuto. Sebbene imponente nel fisico, il suo personaggio non emana tanta personalità quanto la parte richiederebbe, ed ecco che il secondo atto vede la Serafin impegnata in un one-woman-show, all’interno del quale il Gagnidze assume il ruolo di una funzionale spalla.
Solo discreti i comprimari, chi più (lo Spoletta di Massimiliano Chiarolla), chi meno (il sagrestano di Alessandro Paliaga) e molto buono l’Angelotti di Deyan Vatchkov, sia scenicamente che vocalmente. Ottimo il Coro. Foto Brescia e Amisano © Teatro alla Scala