Palermo, Teatro Massimo:”Das Rheingold”

Palermo, Teatro Massimo, Stagione Lirica 2013
“DAS RHEINGOLD” (L’oro del Reno)
Prologo della sagra scenica Der Ring des Nibelungen, in quattro scene
Libretto e musica di Richard Wagner
Wotan FRANZ HAWLATA
Donner ERIC GREENE
Froh ALEX WAWILOFF
Loge WILL HARTMANN
Alberich SERGEI LEIFERKUS
Mime ROBERT BRUBAKER
Fasolt KEEL WATSON
Fafner CHRISTIAN HÜBNER
Fricka ANNA MARIA CHIURI
Freia STEPHANIE CORLEY
Erda CERI WILLIAMS
Die Rheintöchter, Woglinde ANA PUCHE ROSADO
Wellgunde CHRISTINE  KNORREN
Flosshilde LIEN HAEGEMAN
Orchestra del Teatro Massimo
Direttore Pietari Inkinen
Regia Graham Vick
Scene e costumi Richard Hudson
Movimenti mimici Ron Howell
Luci Giuseppe Di Iorio
Nuovo allestimento del Teatro Massimo
Palermo, 22 gennaio 2013
A poco più di un mese dall’apertura scaligera con Lohengrin, un altro teatro ha voluto inaugurare la propria stagione con un’opera wagneriana, schierandosi così dalla parte del compositore tedesco rispetto a Verdi. Ma se Milano ha subito rimediato con Falstaff e Nabucco, a Palermo ciò non avviene, per lo meno in questa prima fase del cartellone 2013. Qui, però, la presenza di un titolo wagneriano come opera inaugurale desta senz’altro meno scalpore, essendo Palermo una delle città italiane più votate a Wagner, sia per vicende che per storia della ricezione, sebbene questo trovi raro riscontro nelle stagioni operistiche. Il progetto del Massimo è inoltre ambizioso: in occasione del bicentenario, la città siciliana ha infatti deciso di mettere in scena l’intera tetralogia Der Ring des Nibelungen di cui a gennaio è stata eseguito il “Prologo” o “Vigilia” Das Rheingold, l’ultima delle quattro opere ad essere stata concepita dal suo autore (Wagner concluse la sua “sagra scenica” nel 1874, ma questa verrà rappresentata a Bayreuth solo nel 1876). Il nuovo allestimento della tetralogia – per la prima volta interamente ideato dal teatro palermitano – costituisce il cuore del “Progetto Wagner” con l’intento primario di riportare a Palermo il capolavoro wagneriano dopo più di quarant’anni, avvalendosi di nomi di grande richiamo, come Pietari Inkinen alla direzione d’orchestra e soprattutto Graham Vick alla regia.
Con Das Rheingold Vick ha voluto rendere subito chiara la propria concezione dell’intero ciclo che egli, ribadisce, ha pensato specificamente per la città siciliana, rifiutando categoricamente qualsiasi tipo di coproduzione. Al centro del pensiero del regista inglese vi è innanzitutto il monumentale palcoscenico del Massimo, che all’inizio del Rheingold accoglie gli spettatori in modo diretto, senza filtri né sipario, con un progressivo accumularsi di figure che man mano entrano e si accomodano su sedie trasparenti, ancor prima che la musica abbia inizio. Per quasi tutta l’opera il palcoscenico rimane nudo e privo di quinte, vertiginosamente profondo ma come scarnificato, ridotto ad un grado zero che è poi quello da cui parte la musica del Preludio e la ricreazione mitica del Ring. Inkinen dosa con impeto il proprio respiro, cercando una fisionomia prettamente wagneriana, ma scontrandosi fin dalle prime note con le sonorità non propriamente massicce dell’organico orchestrale. Nelle vesti di apprendista stregone, il direttore ha cercato di domare le energie musicali provenienti dalle diverse sezioni, costruendo un flusso essenzialmente chiaro e leitmotivamente pregnante, supportato dai timbri terreni dei legni, dalle peculiarità fluide degli archi, ma privo del fuoco degli ottoni e dell’ariosità delle arpe (previste in numero di sette, ridotte a tre nell’orchestra del Massimo).
Minigonne e shorts per le tre figlie del Reno, in perpetua mobilità, la cui gestualità eccessivamente sguaiata è sembrata fuori luogo, seppur coinvolgente e dinamica. Bravissime le tre cantanti (Ana Puche Rosado, Christine Knorren e Lien Haegeman) insidiate da un Alberich goffo e sgraziato, reso con cura da Sergei Leiferkus, la cui ruvidità del fraseggio ha trovato un contrappasso perfetto nella Woglinde della Rosada, dalla voce cristallina e splendente come i primi bagliori dell’oro del Reno. I flutti del fiume sono stati rappresentati da decine di figuranti in impermeabile trasparente: essi maneggiavano sedie in plexiglas, ora immote in anse placide, ora tumultuose durante il furto dell’oro. Dai bagliori illusori dell’artificio (l’oro) attraverso quelli della natura (i girasoli) si accede al Wallhalla, grandiosa rocca sulle vette montane. Gli dei che lo popolano sono eterogenei, ognuno con la propria individualità, ma tutti all’altezza dell’ottimo cast che ha caratterizzato questa produzione.
Giunonica di nome e di fatto, la Fricka di Anna Maria Chiuri si muove con sensibilità tra accenti vigorosi e frasi delicate; Freia, sua sorella e garante della giovinezza, trova in Stephanie Corley un’interprete di vocalità eterea, che grazie alla fisionomia sfuggente e candida attira in modo irresistibile gli altri protagonisti del pantheon wagneriano. A partire da Wotan, affidato a Franz Hawlata, dotato di un bel timbro da basso/baritono e di interessanti qualità attoriali, ma che alla fine della sua prova (senz’altro estenuante) ha cominciato a mostrare segni di stanchezza. Suoi antagonisti nella ricerca della giovinezza – e di lì a poco anche dell’oro e del potere – sono i giganti Fasolt e Fafner, portentosi nella fisicità e vocalità (in particolare Keel Watson, inappuntabile sul piano tecnico e eccellente nel rappresentare lo stato di soggiogazione rispetto al fratello, Christian Hübner). Froh ha in mano un orsacchiotto, che riflette il canto squillante del tenore Alex Wawiloff, mentre il martello di Donner viene trasformato in una mazza da polo che uno strepitoso Eric Greene faceva roteare con dimestichezza, accompagnando i movimenti atletici ad un profilo vocale possente e magnetico. Al di fuori di questo meccanismo, il dio del fuoco Loge (Will Hartmann) che nella straordinaria vivacità mimica ha riscattato una tenuta vocale non sempre eccelsa, e la dea della terra Erda (Ceri Williams) che nel breve intervento ha tirato fuori un carattere poco consueto, ma comunque convincente. Nonostante l’assenza dell’intervallo, la musica non riesce a stancare nemmeno per un attimo, poiché inarrestabile è la sua forza propulsiva, l’energico dinamismo perfettamente esemplificato in un passaggio fra i più vertiginosi della partitura, la discesa di Wotan e Loge nel Nibelheim (scenicamente rappresentata dal banale utilizzo di un ascensore). Nella concezione di Vick, il Nibelheim è davvero un incubo infernale, ma inteso in senso moderno, popolato cioè da agenti di borsa e contabili alienati, cocainomani a tal punto da tenere in mano fazzoletti intrisi del sangue che fuoriesce dalle loro narici. Essi non estraggono oro, ma ne tengono il conto, poiché nella società contemporanea è il controllo astratto (e non il lavoro fisico) ciò che garantisce il possesso delle ricchezze. Su tutti tiranneggia Alberich, interamente ripulito e padrone di rinnovate energie vocali. La sua trasformazione in drago – come nel caso del Reno – è rappresentata dal “coro” dei figuranti (nelle ultime due scene anche Nibelunghi) che con efficaci movimenti ideati da Ron Howell repentinamente cominciano a strisciare e attorcigliarsi in spire inquietanti. Nella terza scena viene anche introdotto il Mime di Robert Brubaker, perfetto nella sua ambiguità e insinuante nel tipo di canto che ci offre. Nonostante la cattura, Alberich non perde quella sicurezza che ormai ha guadagnato e il trionfo degli dei assume i tratti di un solenne epitaffio, nonostante gli sforzi di Froh e Donner. Sullo sfondo le figlie del Reno piangono la perdita dell’oro. Loge, ancora una volta, scende giù dal palcoscenico e si aggira nella platea, sottolineando quel coinvolgimento degli spettatori che vorrebbe essere ottenuto anche dal coro, ma il cui effetto viene raggiunto solo in parte. Eppure, nei suoi interventi, Loge tocca gli stipiti del teatro, mentre le luci in sala si accendono: è il Massimo la rappresentazione del Walhalla e noi stessi i suoi abitanti, che con gli dei condividiamo vizi e virtù, paure e debolezze, e soprattutto il desiderio sfrenato del lusso e del potere che presto porterà all’epilogo del Götterdämmerung.
Foto Franco Lannino/Studio Camera