Milano, Teatro alla Scala: “Nabucco”

Milano, Teatro alla Scala – Stagione d’Opera e Balletto 2012/2013
“NABUCCO”
Dramma lirico in quattro parti,libretto di Temistocle Solera
Musica di Giuseppe Verdi
Nabucco LEO NUCCI
Ismaele ALEKSANDRS ANTONENKO
Zaccaria VITALIJ KOWALJOW
Abigaille LIUDMYLA MONASTYRSKA
Fenena VERONICA SIMEONI
Il Gran Sacerdote ERNESTO PANARIELLO
Abdallo GIUSEPPE VENEZIANO
Anna TATIANA RYAGUZOVA
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Nicola Luisotti
Maestro del Coro Bruno Casoni
Regia Daniele Abbado
Scene e Costumi Alison Chitty
Collaboratore del regista Boris Stetka
Luci Alessandro Carletti
Video Luca Scarzella
Movimenti coreografici Simona Bucci
In coproduzione con Royal Opera House, Covent Garden, Londra; Lyric Opera of Chicago; Grand Teatre del Liceu, Barcellona
Milano, 20 febbraio 2013

Il 9 marzo 1842 andava in scena al Teatro alla Scala la prima rappresentazione di Nabucodonosor, l’opera con cui Verdi s’impose all’attenzione e all’apprezzamento del pubblico italiano: basta ricordare che in quel solo anno, dopo le prime otto, seguirono altre cinquantasette recite in Milano, per render conto della sua immediata fortuna. Nella percezione collettiva Nabucco (riduzione onomastica del titolo originario) è l’opera iniziale di Verdi, è il titolo melodrammatico-risorgimentale per eccellenza, è il coro del «Va, pensiero, sull’ali dorate», è la trasposizione della Bibbia nel teatro italiano sulla scia del Mosè di Rossini, è un momento innegabile – più che d’identità nazionale – di aspirazione all’identità. Ma Nabucco è soprattutto musica di un compositore giovane e combattivo, che in una partitura tutto sommato contenuta nell’estensione mantiene sempre altissima la tensione drammatica.
Per tutti questi motivi (e per altri ancora) Nabucco induce suggestioni e aspettative non comuni nel pubblico italiano; se poi si aggiunge che il 2013 è anno verdiano, che l’opera ritorna alla Scala dove mancava dal 1996, che il teatro l’ha riproposta in parallelo a Falstaff (come a dire l’alfa e l’omega della produzione di Verdi), allora la sola attesa della recita è già di per sé sovraccarica di emozioni. Quadro complesso e rischioso, perché non sempre il fervore dell’appassionato è poi ripagato dall’esecuzione cui assiste. È stato un buon Nabucco quello scaligero appena conclusosi? Per certi aspetti sì, per altri esso ha suscitato qualche perplessità.
Nabudonosor vive anzitutto grazie al suo protagonista: Leo Nucci debuttava alla Scala (incredibile dictu) in una parte che frequenta da molto tempo e in cui nel passato ha dato il meglio di sé. Di fronte a un artista come Nucci, che non ha mai risparmiato nulla dei propri mezzi vocali, e che ha l’umiltà e al tempo stesso l’ardimento di cantare Nabucco per la prima volta sul palcoscenico della Scala all’età di 71 anni, non si può che restare ammirati. Più che rilevare – come al solito – l’eccezionale longevità della voce di questo baritono (uno dei pochissimi ad aver interpretato tutti i ruoli verdiani, e per questo tra i primi nomi della Verdi renaissance), piace ricordare un ulteriore motivo di grandezza: a causa dell’indisposizione del secondo interprete (Ambrogio Maestri) Nucci ha accettato di cantare tutte le recite della produzione; e così in venti giorni ha sostenuto la parte per ben nove serate. All’ultima recita, il cantante non sembra poi accusare la fatica degli anni e soprattutto delle otto recite alle spalle: semplicemente, la sua voce è ridimensionata, ma niente affatto spenta, produce quelle oscillazioni tipiche di un organo vocale in strenuo esercizio da molti decenni, e fa leva sul portamento vocale per raggiungere i livelli più acuti della parte. Detto questo, il personaggio è reso in modo suggestivo e credibile: il Nabucco di Nucci è ovviamente un sovrano invecchiato e stanco, lontano dal trionfo militare e dalla vita guerresca; è un Nabucco rassegnato alla sorte, ma ancora capace di commettere hýbris e di ravvedersi. Per questo commuove il pubblico non tanto nelle prime due parti, ma nelle seconde: il momento di più intensa partecipazione degli spettatori è seguito all’aria-preghiera «Dio di Giuda! L’ara e il tempio» nell’ultimo blocco del dramma. Ma c’è stato anche un momento in cui il vecchio leone ha proteso la zampata regale e tutti i suoi colleghi hanno dato il loro meglio: l’icastico concertato «S’appressan gl’istanti / d’una ira fatale» prima del finale II.
Controparte di Nabucco è Zaccaria, Vitalij Kowaljow, che canta con impostazione corretta, con un fraseggio anche discreto, ma la cui voce è decisamente troppo leggera per il ruolo. Oltre alla piccolezza di volume, essa smarrisce gli armonici negli acuti (raggiunti sempre con difficoltà) e risulta artefatta: nella I parte, anche a causa del robusto sostegno orchestrale da contrastare, i difetti sono più che evidenti; il cantabile «Tu sul labbro de’ veggenti» della II, con accompagnamento ridotto ai soli violoncelli, permette al cantante di rendere un po’ meglio. Nel complesso, comunque, soprattutto al termine della parte III, la prestazione di Kowaljow è parsa inadeguata. Ismaele è il tenore Aleksandrs Antonenko, dalla voce debordante e dal timbro sgraziato, con emissioni di fiato non sempre controllate, e con qualche difetto nell’intonazione.Protagonista femminile l’indomita e sfortunata Abigaille, interpretata da Liudmyla Monastyrska, sicuramente la voce più interessante e promettente dell’intera compagnia. Già ascoltato alla Scala nel marzo dello scorso anno come Aida, questo soprano ha voce ragguardevole e s’impegna molto sul piano espressivo; abile nell’alleggerire il volume sonoro, specie per sottolineare il feroce sarcasmo delle parole di Abigaille, dimostra tecnica decisamente buona, anche se perfettibile; per esempio nel registro si percepisce un leggero scollamento tra le note centrali e medio-alte (molto omogenee, ferme, di un bel colore brunito adeguato alla parte) e quelle basse (comunque ben sostenute) e le puntature acute (solide, ma tendenti a leggero stridore). Riuscito molto bene il terribile salto d’ottava della II parte («Su me stessa rovina, o fatal sdegno»), anche la Monastyrska ha commosso il pubblico con gli accenti elegiaci e i bellissimi colori delle sue note centrali nella preghiera finale «Su me… morente… esanime…». Corretta ed espressiva la Fenena di Veronica Simeoni, anche se dalla voce un po’ piccola; sempre di grande professionalità ed efficacia Ernesto Panariello nel ruolo del Gran Sacerdote di Belo; buone le parti di fianco: Giuseppe Veneziano (Abdallo) e Tatiana Ryaguzova (un’Anna vigorosa).
A concertare l’orchestra, la non uniforme compagnia vocale e il coro della Scala (quest’ultimo è in Nabucco sempre protagonista), Nicola Luisotti ha svolto un lavoro molto pregevole: sin dalla sinfonia si comprende come abbia voluto prediligere la qualità dei colori orchestrali, valorizzando per esempio i legni e alcuni strumenti a fiato (flauto, oboe), e ridimensionando invece la presenza degli ottoni. La drammaturgia del suo Nabucco è tutta nella trama coloristica e nella misurata concitazione dei tempi; caratterizza Luisotti una sorta di piglio “gavazzeniano”, ossia la scelta di staccare a ritmo sostenuto gli snodi drammatici della vicenda, senza però abbandonarsi mai a ritmi frenetici. L’orchestra della Scala ha suonato benissimo in ogni sezione; risaltavano nella I parte i pizzicati delle due arpe, ricordo biblico e prefigurazione del celebre coro («Arpa d’or dei fatidici vati»); ottimi anche gli interventi della banda dietro il palco.
E il coro, impegnato tra l’altro in una delle pagine più amate di tutta la storia della musica? Forse nelle prime due parti del dramma la sezione femminile ha prodotto qualche piccola sprezzatura, ma la sua prestazione è stata nel complesso molto buona. Eppure, proprio il coro ha fatto le spese di un serpeggiante malcontento del pubblico: dopo il «Va, pensiero, sull’ali dorate» della III parte, mentre platea e palchi applaudivano commossi, dalle gallerie si è levata qualche contestazione, non isolata; come solitamente accade, chi applaudiva ha intensificato il battimani per coprire i dissensi –  che non sono cessati – e per chiedere il bis del celebre pezzo. Il direttore ha compiuto una scelta apparentemente anomala: ha deciso di replicare il coro degli schiavi ebrei in riva all’Eufrate, anche a dispetto di una parte che manifestava dubbi. La replica è stata appena più intensa, ma si è sentita scandire con enfasi la parola bella («Oh mia patria, sì bella e perduta!») e il lunghissimo soffio del virtù finale ha avvolto un’altra volta la sala. Il direttore ha avuto ragione: dopo il bis nessuno ha più contestato nulla, si sono uditi soltanto applausi convinti e prolungati. Ma è significativo che il successivo ingresso di Zaccaria («O chi piange? Di femmine imbelli») e il finale III siano caduti in un raggelante silenzio: neppure un applauso tra III e IV parte (La profezia e L’idolo infranto: mai Temistocle Solera avrebbe immaginato che i suoi titoli potessero adattarsi anche agli umori del pubblico, capace di infrangere l’idolo di «Va, pensiero» …). Il momento di divisione è stato isolato, perché al termine della recita tutti hanno raccolto apprezzamenti senza riserve; naturalmente i più festeggiati sono stati Leo Nucci e Liudmyla Monastyrska.  L’allestimento scenico diretto dalla regia di Daniele Abbado non ha nulla né di trionfale né di fiabesco: è improntato sulla sobrietà, sul grigiore della tragedia degli Ebrei (e infatti i costumi di Alison Chitty sono abiti di modello piccolo-borghese degli Anni Quaranta del Novecento, secondo una sovrapposizione tra il popolo ebraico deportato a Babilonia e quello della Shoah). Il tempio di Gerusalemme è una spianata sabbiosa con molti cippi lapidei, che vengono divelti dalla furia degli Assiri; la riva dell’Eufrate su cui si raccoglie il coro è un cerchio di stoppie riarse. L’azione sul palcoscenico è accompagnata sul fondale da proiezioni video di Luca Scarzella, che rielabora lo scontro etnico tra Assiri ed Ebrei. Con un’impostazione scenica di questo tipo Nabucco perde ogni fascino tradizionale, esotico, orientale, meraviglioso (i famosi orti pensili di Babilonia), ma la realistica sobrietà è stata molto coerente e moderna: al posto della favola a conclusione edificante, è emersa la tragedia della persecuzione degli Ebrei. Quando Nabucco si pente degli eccidi compiuti, attorno a lui giacciono bambini del popolo di Giuda, che alla fine non si risvegliano dal loro sonno: il pentimento individuale non basta a cancellare una tragedia universale. Foto Rudy Amisano