Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino: “Don Giovanni”

Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, Stagione Lirica 2012/2013
DON GIOVANNI
Dramma giocoso in due atti K. 527 di Lorenzo Da Ponte
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Don Giovanni ALESSANDRO LUONGO
Il Commendatore STEPHEN MILLING
Donna Anna YOLANDA AUYANET
Don Ottavio PAOLO FANALE
Donna Elvira CAITLIN HULCUP
Leporello ROBERTO DE CANDIA
Masetto NICOLÒ AYROLDI
Zerlina MARINA COMPARATO
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Zubin Mehta
Maestro del Coro Lorenzo Fratini
Maestro al cembalo Andrea Severi
Regia Lorenzo Mariani
Scene Maurizio Balò
Costumi Silvia Aymonino
Coreografia Ilaria Landi
Luci Linus Fellbom
Firenze, 7 febbraio 2013 

Ho conosciuto Lorenzo Mariani, il regista dello spettacolo, tanti anni fa, a casa di amici comuni, forse all’epoca del suo primo allestimento al Comunale di Firenze, Il Castello del Principe Barbablù di Bartók (che non ricordo come uno spettacolo memorabile). A quell’epoca mi diede l’impressione di un giovane americano che si sforzava di dimostrare quanto la sua cultura fosse imbevuta di italianità, anche se era evidente la sua formazione yankee. Da allora ha fatto tanta strada, lavorando con teatri prestigiosi e firmando spettacoli di successo. Assistendo a questo suo Don Giovanni, riflettevo come, probabilmente, la sua natura di americano colto gli permetta di interpretare l’opera in una prospettiva moderna ed essenziale ma, allo stesso tempo, concettuale, senza gli orpelli con i quali, a volte, i registi italiani caricano gli spettacoli.
Ma partiamo dalla scena, merito di Maurizo Balò, che accoglie lo spettatore a telone alzato. Il palcoscenico è stato esteso con uno sviluppo anteriore verso il pubblico e circonda lo spazio dell’orchestra che si ritrova dentro una buca. Oltre il sipario, ai lati delle barcacce, sporgono due corridoi che collegano il palco con una passerella, come quella del Varietà degli anni 50, lungo la quale gli attori sono chiamati ad agire per molta parte della recita. Questa idea si unisce all’espediente di far entrare e uscire i cantanti dalle porte laterali della platea facendogli percorrere un breve tratto in mezzo al pubblico. Si tratta certamente di un’idea già vista, ma è efficace a proiettare la scena sul pubblico e a materializzarla, a confondere il confine tra fantasia e realtà come a dire che il mito di Don Giovanni scaturisce dalla natura umana e che le sue debolezze ci appartengono. Inoltre, questa disposizione scenica costringe orchestrali e direttore a raggiungere la buca passando dal palcoscenico, una trovata per sottoporli maggiormente all’attenzione degli spettatori e affermare che anch’essi fanno parte della scena. Questa intenzione è rafforzata alla fine del primo atto, dalla scelta di far suonare sul palco alcuni strumentisti, come musici invitati a rallegrare il banchetto. E ancora, nel secondo atto, al momento della romanza “Deh, vieni alla finestra, o mio tesoro”, Don Giovanni interagisce con la suonatrice di mandolino che l’accompagna e con lo stesso direttore d’orchestra: Zubin Mehta partecipa divertito all’esibizione, indossando il cappello che gli porge il cantante e sostenendo lo spartito del mandolino.
Ad attendere lo spettatore dunque, al suo ingresso in sala, è un ampio palco vuoto con sette aperture frontali, poste a semicerchio, che si aprono e chiudono come per incanto, uno spazio quasi metafisico, spoglio di elementi che possano anticipare qualcosa di quello che si andrà ad assistere. Solo gli azulejos, con l’azzurra perfezione geometrica che ricopre pareti e pavimento, indicano il luogo dell’azione: una Spagna idealizzata in cui anche i contorni temporali sono vaghi. Il tempo dell’azione è posticipato rispetto all’epoca tradizionale del dramma, lo si capisce dagli eleganti costumi di Silvia Aymonino, da una pistola che appare nelle mani di Don Ottavio e, soprattutto, dall’invenzione comica di Leporello che, aprendo di scatto il pastrano, mostra all’angustiata Donna Elvira le foto attaccate alla fodera delle innumerevoli conquiste del suo amato, le quali sostituiscono l’elenco dongiovannesco durante la celeberrima aria “Madamina, il catalogo è questo”.
Ma torniamo alla scena vuota prima del dramma perché è importante sottolineare l’elemento che dà alla vicenda di questo Don Giovanni un percorso circolare, quasi a indicare che egli è un predestinato. Fin dal momento in cui agli spettatori è concesso l’ingresso in sala, si notano sul palcoscenico quattro valletti seduti con le spalle al pubblico, le loro sagome si contrappongono a quelle di quattro grandi nappe pendenti da un drappo gigantesco che, nell’alternarsi delle scene, sale e scende a mò di sipario. Il disegno di questi grandi fiocchi somiglia a quello di dame immobili ma semoventi che, essendo sempre presenti sulla scena, rappresentano l’ossessione di Don Giovanni e la causa della sua rovina. Con nostra grande sorpresa, i quattro valletti che, per la loro immobilità, sembravano manichini, alla fine dell’ouverture, si alzano, afferrano i candelabri ai lati delle sedie e spariscono. Riappariranno alla fine del dramma accompagnando Don Giovanni nella sua discesa agli inferi, in una dissolvenza che, per il percorso che compie il personaggio lungo il corridoio centrale della platea, ha ancora una volta il significato dell’attualità del dramma.
Ascoltare la musica di Mozart è sempre un’esperienza straordinaria, la prova dell’esistenza della nostra anima, perché le sue armonie fanno vibrare certi sentimenti così profondi che ci stupiamo perfino di possedere. Assistere alla musica di Mozart in una bella messinscena come questa diventa allora uno spettacolo esaltante, anche se dobbiamo esprimere qualche riserva sull’esecuzione di Zubin Mehta che nell’aspetto e nella conduzione appare ormai invecchiato e stanco.
Grandi lodi invece per i cantanti, ed è stupefacente che siano tutti bravi, nessuno escluso. Un plauso va comunque al direttore artistico e al regista che hanno scelto gli interpreti non solo per le qualità canore ma per la presenza scenica e le abilità attoriali. Ancora una volta, probabilmente, l’americanità di Mariani, lo spinge a svecchiare con intelligenza l’opera, realizzando sul palco quella commistione di generi necessaria per un pubblico che, oltre al teatro lirico, frequenta il cinema e la televisione e non si accontenta più solo di una bella voce ma pretende artisti completi che sappiamo ben cantare e recitare allo stesso tempo. E questi interpreti non deludono, fosse solo per i movimenti di scena che sono chiamati a compiere realizzando azioni dinamiche e a volte anche conturbanti.
Il Don Giovanni è forse l’opera di Mozart in cui si fa più esplicito riferimento alla sessualità e ci è sembrato opportuno che sia stata rappresentata la sensualità espressa nei versi di Da Ponte. Finanche Leporello, cantato e interpretato magnificamente da Roberto de Candia, che di solito ha il ruolo di macchietta, nel suo corpo a corpo con Donna Elvira che lo scambia per Don Giovanni, sa agire con movimenti vivaci e birboneschi. E che dire della scelta di Alessandro Luongo nel ruolo del protagonista? Il cantante da vita a un Don Giovanni come dovrebbe essere. Non quei cinquanta/sessantenni poco credibili, ma un interprete che incarna la pulsione ormonale e l’irresponsabile spregiudicatezza del personaggio. È vero, il protagonista mozartiano non è solo questo: come spiega Sergio Givone nel suo colto saggio del libretto di sala, Don Giovanni è anche il simbolo dell’anticristianità che si oppone al solo amore lecito, quello coniugale. Ma queste cose gran parte del pubblico non le sa, lasciamo che siano gli esegeti a spiegarcele. Quello che si percepisce è un protagonista beffardo e sprezzante, e Paolo Fanale nel ruolo di Don Ottavio, con i suoi toni misurati, incarna bene il ruolo dell’amore coniugale che si contrappone all’ossessione malata di Don Giovanni: la sua aria “Della sua pace” è il momento più alto dello spettacolo. Il suo attacco morbido, l’intonazione e i cambiamenti dinamici hanno incantato e commosso. Infine, il Commendatore di Stephen Milling colpisce per la potenza vocale e la fisicità, e nulla da eccepire sulla prestazione canora di Nicolò Ayroldi, anche se il suo Masetto andava caricato di maggiore intensità.
Fra le donne, tutte brave, quella che, a mio a parere, si distingue maggiormente è la Zerlina di Marina Comparato, molto in parte e spigliata. Di Yolanda Auyanet non si è notato affatto, l’indisposizione annunciata all’inizio della recita: ha eseguito la sua partitura con perizia e ha dato di Donna Anna una giusta doppia interpretazione, dapprima eccessiva e poi dimessa e solenne.
Meno convincente, non per capacità vocali ma per interpretazione, la Donna Elvira di Caitlin Hulcup, dal temperamento molto poco mediterraneo per vestire i panni di una focosa amante spagnola. In generale uno spettacolo riuscito che si è apprezzato anche per la qualità della dizione di tutti i cantanti che hanno reso i recitativi brillanti e godibili.
Un’ultima annotazione: durante la seconda apparizione del Commendatore, quando già si accendono le luci rosse dell’inferno, vengono proiettate alle pareti le ombre dei musicisti dell’orchestra, un voluto riferimento all’inferno che attualmente stanno attraversando i lavoratori del Maggio?

One Comment

  1. mario fedrigo

    Mi chiedo: a Firenze deve sempre dirigere Zubin Mehta? E’ vero, è molto bravo, ma i fiorentini sono destinati ad ascoltare soltanto le sue interpretazioni, come se non esistessero altri direttori.

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