Venezia, Teatro La Fenice: “Věc Makropulos”

Venezia, Stagione Lirica 2012-2013
“VĚC MAKROPULOS”
Opera in tre atti, libretto e musica di Leoš Janáček dalla commedia omonima di Karel Čapek
Emilia Marty ÁNGELS BLANCAS GULÍN
Jaroslav Prus MARTIN BÁRTA
Janek ENRICO CASARI
Albert Gregor LADISLAV ELGR
Hauk-Šendorf ANDREAS  JÄGGI
L’avvocato dr. Kolenatý ENRIC MARTÍNEZ-CASTIGNANI
L’archivista Vítek LEONARDO CORTELLAZZI
Krista JUDITA NAGYOVÁ
Una cameriera, Una donna delle pulizie LEONA PELEŠKOVÁ
Un macchinista WILLIAM CORRÒ 
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Gabriele Ferro
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti 
Regia Robert Carsen
Scene Radu Boruzescu
Costumi Miruna Boruzescu
Light designer Peter Van Praet
Allestimento Fondazione Teatro La Fenice in coproduzione con Opera national du Rhin di Strasburgo e Staatstheater di Norimberga
Venezia,  19 marzo 2013

Finalmente, dopo un oblio quasi secolare, Věc Makropulos sbarca in laguna per la prima volta, in un nuovo allestimento coprodotto dalla Fondazione Teatro La Fenice con l’Opéra National du Rhin di Strasburgo e lo Staatstheater di Norimberga (dove è andato in scena rispettivamente nell’aprile 2011 e nel maggio 2012), per la regia di Robert Carsen, le scene di Radu Boruzescu, i costumi di Miruna Boruzescu e le luci di Peter Van Praet.
Davvero portentosa appare, per certi versi, la fantasia del drammaturgo cèco Karel Čapek – autore, tra l’altro, della pièce teatrale R.U.R. (Rossum’s Universal Robots) in cui viene adoperata per la prima volta appunto la parola robot, dal cèco robota (lavoro pesante) – che ha saputo escogitare, per delineare il personaggio di Emilia Marty, la protagonista del suo Věc Makropulos (grande cantante lirica idolatrata dal pubblico quanto irresistibile seduttrice), una “magica” mistura di alcuni tra i più famosi topoi letterari della cultura occidentale, dal mito dell’eterna giovinezza (pensiamo a Faust o a Dorian Gray) a quello della Femme fatale che seduce con il canto (Tosca) o con la sua gelida bellezza (Turandot); magica, per così dire, come la ricetta del fisico e alchimista Hieronymus Makropulos, nella vicenda il padre di Elina (questo il primo dei tanti nomi della protagonista), che la formulò per ridare la giovinezza all’ormai vecchio imperatore Rodolfo II d’Asburgo, ma poi, per la diffidenza di quest’ultimo, fu costretto a provarla sulla propria figlia sedicenne, su cui avrà un effetto davvero portentoso, facendola vivere più di tre secoli, nel corso dei quali assumerà svariate identità, tutte contrassegnate dall’acronimo EM. Janáček – suscitando non poche perplessità nello stesso Čapek, che considerava il suo lavoro poco poetico – si appassionò enormemente a questo soggetto e ne trasse un’opera, che rappresenta una vera e propria sfida vincente, un tentativo assolutamente riuscito di proporre una sua idea feconda e originale di teatro musicale, portando a compimento un percorso iniziato con Výlety páně Broučkovy (Il viaggio del signor Brouček) e Příhody lišky Bystroušky (La volpe astuta), volto ad affermare un’austera vocalità modellata sulla parola e sempre meno indulgente al lirismo. In Věc Makropulos predomina quel “parlato realistico”, a lungo studiato da Janáček, che il sommo musicista moravo riteneva la base della melodia e del ritmo della musica, soprattutto di quella vocale. Solo nel finale la cupa vicenda si scioglie in un arioso della protagonista dal tono lirico e meditativo, che segna un contrasto piuttosto marcato rispetto al declamato fino a prima dominante. La modernità, l’originalità di quest’opera confermano il ruolo di primo piano – e per troppo tempo misconosciuto – che Janáček riveste nell’ambito del teatro musicale novecentesco accanto a due autori celebratissimi, quali Richard Strauss e Giacomo Puccini. Con essi ha in comune la capacità di preparare, sottolineare, commentare musicalmente ogni particolare del testo e dell’azione drammatica ora con partecipazione emotiva ora con distaccata ironia. In Janáček, e in particolare in Věc Makropulos, questo avviene attraverso una musica, che rifugge più che mai da estenuate atmosfere tardo romantiche e, al contrario, non è scevra da asprezze di sapore naïf o popolare. Peculiare anche la presenza nel tessuto musicale di brevissimi temi, che vengono ripetuti – dopo essere stati sottoposti a minime variazioni e a trasposizioni armoniche – in successioni svincolate dalle regole tradizionali della musica tonale, oltre che di ostinati, che conferiscono alla partitura un carattere ossessivo che fa pensare a Kafka ed evoca una condizione esistenziale inceppata nei circoli viziosi e senza scopo, soprattutto se condannata – come nel caso della protagonista – ad un’assurda iterazione di esperienze e sentimenti a conseguenza dell’incantesimo della longevità. Che è poi il tema filosofico che fa da sfondo alla vicenda e alla sua tragica conclusione, in cui la morte appare ad Emilia preferibile al prolungamento di una vita che non ha più nulla da darle.
Esemplare per chiarezza e pregnanza la regia di Robert Carsen, che colloca la vicenda nel periodo in cui a Praga si rappresentava la prima di Turandot, suggerendo quel collegamento tra Emilia Marty e l’algida eroina pucciniana, che abbiamo già messo in evidenza. Forse per rimarcare la teatralità esasperata che ha contrassegnato anche al di fuori del palcoscenico la sua vita, la protagonista durante l’introduzione orchestrale si presenta indossando – dopo l’abito cinquecentesco che portava sedicenne nell’atto di bere l’elisir di lunga vita – una serie di diversi costumi di scena come se fosse colta da una compulsiva voglia di travestirsi, di esibirsi, ripercorrendo, insieme ai ruoli che ha interpretato, le varie fasi della sua vita. Teatro nel teatro, ma anche, in certi momenti, abbattimento della “quarta parete” facendo penetrare la finzione scenica dentro la sala, a contatto con gli spettatori mescolando realtà e teatralità e coinvolgendo il pubblico nel momento del trionfo e poi del repentino declino della protagonista: dai palchi di proscenio, all’inizio del secondo, atto entusiasti ammiratori lanciano fiori a Emilia Marty, trionfale interprete di Turandot, il macchinista dialoga con la donna delle pulizie commentando lo strepitoso successo della cantante nel teatro ormai vuoto, Prus chiede di essere ricevuto dalla “divina”; nella scena finale Krista rifiuta la formula dell’elisir di lunga vita che le cede Emilia, ormai votata alla morte. Particolarmente azzeccato il cambio di scena nel primo atto (studio del Dr. Kolenaty) per focalizzare l’attenzione sul dialogo tra Gregor e la Marty.
Adatte alla kafkiana vicenda le scene di Radu Boruzescu, che nello studio di Kolenaty colloca una doppia serie di scaffali ingombri di scartoffie a mo’ di quinte come ingombra di oggetti e carte è la camera di Emilia. Gradevoli e intonati al soggetto i costumi di Miruna Boruzescu al pari delle luci piuttosto soffuse di Peter van Praet. Ottima la prestazione dell’orchestra, autorevolmente guidata da Gabriele Ferro, che si è mostrato perfettamente a suo agio di fronte a una partitura che, come abbiamo accennato, si caratterizza per le sonorità talora aspre, gli ostinati, le fanfare, il ruolo determinante delle percussioni; tutti elementi che fanno da contrasto al lirismo di certe pagine, come, in particolare, la scena finale, in cui si assiste al progressivo scioglimento della glaciale protagonista con il sottofondo di una struggente melodia. Merito del direttore siciliano l’aver dato unità a questa musica, cogliendo i sottili rapporti che legano anche passaggi di carattere molto diverso e instaurando una ineccepibile sintonia con il canto e la scena.
Tutti di prim’ordine i componenti del cast, che hanno sfoggiato, in generale, facilità di emissione e incisività nel continuo “parlato realistico”, tipico di Janáček. In generale convincenti non solo vocalmente i ruoli tenorili: più in particolare, Leonardo Cortellazzi ha rivelato, quale Vitek, grande spigliatezza sulla scena; Ladislav Elgr (Albert Gregor) si è rivelato un po’ stridulo negli acuti, ma efficace dal punto di vista drammatico; Andreas Jäggi, nei panni di Hauk-Šendorf , ha ben interpretato la macchietta dell’attempato spasimante con qualche tratto espressionistico soprattutto, nell’atto terzo, delirante d’amore per la protagonista. Molto convincente in tutti i sensi l’avvocato Kolenatý di Enric Martinez-Castignani, baritono dal bel timbro brunito e omogenea nei diversi registri, tra il caricaturale e l’espressionistico nella sua esasperata gestualità. Autorevole Jaroslav Prus quale Martin Bárta, dalla voce con qualche asprezza metallica, ma potente, adatta come il suo gesto scenico alla parte del nobile altezzoso. Judita Nagyová, mezzosoprano di ottima professionalità, è stata una valida Krista, cui il regista ha riservato delle movenze alquanto plateali come nel primo atto, quando si butta a terra sconsolata per l’insostenibile confronto con la “diva” Emilia Marty. Su tutti si è imposta l’Emilia Marty di Ángeles Blancas Gulín, sfavillante soprano leggero come si addice alla tessitura del suo ruolo, straordinaria per la presenza scenica e la facilità negli acuti. Bravissima nella parte della Femme fatale. Grande nel tragico epilogo, quando completamente calva e incredibilmente invecchiata si lascia morire, meditando sulla vita e la morte. Valide anche le parti “minori” e come sempre il coro. Successo pieno e convinto, con numerose chiamate.